Un’opera perfetta, dall’afflato universale. Tolstoj sceglie l’evento più banale e straordinario, naturale e terribile che un uomo possa vivere – l’incontro con la propria morte – e ne riporta fedelmente il resoconto, senza filtri, senza aggiungerci nulla che non sia puramente umano (l’approdo alla conversione verrà dopo).
L’universalità del tema si cala in un contesto sociale determinato: la media borghesia russa di metà Ottocento (ma tempo e luogo sono irrilevanti), una scelta ben precisa che rappresenta l’insanabile dicotomia fra l’illusione di realizzazione in questa vita e la presa di coscienza della sua vacuità quando ormai è troppo tardi. Tutto il libro è attraversato da un senso di incomunicabilità: Ivan Il’Ic, l’uomo al vertice della carriera, il marito dalla condotta ineccepibile (tutto deve essere fatto “comme il faut”), il frivolo compagno di “vint” è morto, ma questo “accidente” deve essere immediatamente rimosso, perché tutto torni come prima. Il disagio nella camera mortuaria è palpabile e coinvolge tutti, persino la moglie, che si interessa di questioni futili come se nulla fosse cambiato davvero.
Ma si possono incolpare la moglie, i colleghi, i compagni di gioco di questa freddezza, di questa estraneità? Quella che separa adesso il defunto da coloro che sono ancora in vita è la stessa incolmabile distanza che ha separato, nei lunghi mesi della malattia, l’Ivan Il’Ic sofferente dall’Ivan Il’Ic di prima: sano, allegro, approvato dalla società e da se stesso. È questa la vera solitudine a cui è condannato il malato: con chi se la può prendere se tutti intorno lui continuano a rispettare le identiche leggi nelle quali lui stesso ha creduto, fino a quando non ne è stato tagliato fuori suo malgrado? Nell’odio di Ivan Il’Ic verso i propri familiari si sente tutto l’odio per se stesso, per quello che era e che non è più, e che forse vorrebbe tornare ad essere se solo fosse possibile. L’accettazione di questo divario è talmente lunga e difficile che è attraverso il suo straziante svolgersi che si dipana il racconto: Ivan Il’Ic comprende presto, quasi subito, che chi lo sta aspettando è “lei”, la morte, ma ci vorranno mesi e mesi, pagine e pagine per noi, perchè questo destino venga accettato e infine abbracciato.
“Quell’esempio di sillogismo che aveva studiato nel manuale di logica del Kiesewetter, Caio è un uomo, gli uomini sono mortali, perciò Caio è mortale, gli era sembrato, per tutta la vita, valido solo in rapporto a Caio, e in alcun modo in rapporto a se stesso. Una cosa era l’uomo-Caio, l’uomo in generale, e in questo caso il sillogismo andava benissimo; ma lui non era né Caio né l’uomo in generale, ma era sempre stato un essere molto, molto particolare, molto diverso da tutti gli altri esseri. (...)Aveva mai sentito Caio l’odore del pallone di cuoio che al piccolo Vanja piaceva così tanto? Aveva mai baciato la mano alla mamma, Caio, e avevano mai frusciato così dolcemente, per Caio, le pieghe della seta del vestito della mamma? Aveva mai litigato, Caio, per le frittelle, all’istituto di giurisprudenza? E Caio, era mai stato innamorato? E sapeva, Caio, presiedere un’udienza in tribunale?
Certo che Caio è mortale, lui è giusto che muoia, ma io, piccolo Vanja, io, Ivan Il’ič, con tutti i miei sentimenti, i miei pensieri, io sono un’altra cosa. Non è possibile che mi tocchi morire. Sarebbe troppo orribile.”
In questo passaggio non si può non riconoscere uno dei vertici della letteratura di tutti i tempi. Col progredire della malattia e l’avvicinarsi di quella morte che continua a fargli paura, ma che ormai gli appare inevitabile, Ivan Il’Ic dovrà prendere coscienza che è proprio lui Caio, ognuno di noi lo è. E se è troppo tardi per riparare agli errori commessi – e forse anche per comunicare con chi sarebbe ancora in tempo ma non capisce, non può capire (non dimentichiamoci che c’è sempre quel baratro, quella distanza infinita e impercorribile) –, si può almeno vivere la morte come non si è vissuta la vita, che alla fine è il solo modo per fare a patti con lei.