lettore marcovaldo
Well-known member
Un alternarsi di orrore e solitudine, di incapacità di comprendere e di essere compresi, in una narrazione che nonostante tutto è un inno alla vita e alla forza del "sentire". Alda Merini ripercorre il suo ricovero decennale in manicomio: il racconto della vita nella clinica psichiatrica, tra elettroshock e autentiche torture, libera lo sguardo della poetessa su questo inferno, come un'onda che alterna la lucidità all'incanto. Un diario senza traccia di sentimentalismo o di facili condanne, in cui emerge lo "sperdimento",
ma anche la sicurezza di sé e delle proprie emozioni in una sorta di innocenza primaria che tutto osserva e trasforma, senza mai disconoscere la malattia, o la fatica del non sentire i ritmi e i bisogni altrui, in una riflessione che si fa poesia, negli interrogativi e nei dubbi che divengono rime a lacerare il torpore, l'abitudine, l'indifferenza e la paura del mondo che c'è "fuori".
Quello che mi ha colpito in questo libro, è la capacità che l'autrice ha avuto nel descrivere la sua condizione in manicomio.
Con grande sensibilità e intensità testimonia la durezza di un ambiente in cui cerca di salvarsi dallo smarrimento definitivo della propria individualità.
Per lo stile della scrittura e la capacità di sintesi mi ha ricordato Primo Levi.
In un certo senso come lo scrittore torinese anche Alda Merini si è trovata ad affrontare una realtà che sembrava dedicata ad annullare la personalità. L'arma a doppio taglio dei farmaci che sedavano ma potevano ridurre a vegetali.
Riesce a sottrarsi da una realtà di "sommersi e salvati" aggrappandosi a piccole e grandi cose, nonchè alla dedizione di un bravo medico. un libro di grande valore da consigliare.
Nell'edizione della collana BUR che ho letto le ultime pagine contenevano una raccolta di versi.
ma anche la sicurezza di sé e delle proprie emozioni in una sorta di innocenza primaria che tutto osserva e trasforma, senza mai disconoscere la malattia, o la fatica del non sentire i ritmi e i bisogni altrui, in una riflessione che si fa poesia, negli interrogativi e nei dubbi che divengono rime a lacerare il torpore, l'abitudine, l'indifferenza e la paura del mondo che c'è "fuori".
Quello che mi ha colpito in questo libro, è la capacità che l'autrice ha avuto nel descrivere la sua condizione in manicomio.
Con grande sensibilità e intensità testimonia la durezza di un ambiente in cui cerca di salvarsi dallo smarrimento definitivo della propria individualità.
Per lo stile della scrittura e la capacità di sintesi mi ha ricordato Primo Levi.
In un certo senso come lo scrittore torinese anche Alda Merini si è trovata ad affrontare una realtà che sembrava dedicata ad annullare la personalità. L'arma a doppio taglio dei farmaci che sedavano ma potevano ridurre a vegetali.
Riesce a sottrarsi da una realtà di "sommersi e salvati" aggrappandosi a piccole e grandi cose, nonchè alla dedizione di un bravo medico. un libro di grande valore da consigliare.
Nell'edizione della collana BUR che ho letto le ultime pagine contenevano una raccolta di versi.