E’ un’opera talmente complessa, “densa”, ricca, che è quasi impossibile riassumerne anche le sole caratteristiche principali in un post. Mi limito allora a riportare qualche pagina critica, quale “invito alla lettura”:
<< Perché la prima pagina dei Promessi Sposi è costruita con periodi tanto lunghi? È chiaro, qui Manzoni sta facendo del cinema...
Cerchiamo di immaginare che Manzoni avesse a disposizione grandi mezzi e dovesse scrivere la sceneggiatura per una storia che inizia a volo di elicottero. Naturalmente un elicottero con una telecamera a bordo. E rileggiamo questa pagina tenendo sotto gli occhi una carta geografica. Provate a farlo a scuola, i ragazzi si divertiranno.
Manzoni ha deciso che la sua descrizione dell’ambiente deve procedere anzitutto per un movimento che un tecnico cinematografico chiamerebbe di «zoom», è come se la ripresa fosse fatta da un aereo: cioè la descrizione parte come fatta dagli occhi di Dio, non dagli occhi degli abitanti. Questa prima opposizione «alto verso basso», oppure questo primo movimento continuo dall’alto al basso, individua prima il lago e il suo ramo, poi scende lentamente a guardare il ponte e le rive. La decisione geografica è rinforzata dalla decisione di procedere da Nord verso Sud, seguendo
appunto il corso di generazione del fiume. In conseguenza il movimento descrittivo parte dall’ampio verso lo stretto, dal largo al fiume, ai torrenti, dai monti ai pendii e poi ai valloncelli, sino all’arredamento minimo delle strade e dei viottoli, ghiaia e ciottoli.
La visione geografica, man mano che procede dall’alto verso il basso, diventa visione topografica e include potenzialmente gli osservatori umani. Non appena questo avviene, la pagina compie un altro movimento, questa volta non di discesa dall’alto geografico al basso topografico, ma dalla profondità alla lateralità: sino ad arrivare a dimensioni umane, dove la carta si annulla nel paesaggio concreto. A questo punto l’ottica si ribalta, i monti vengono visti di profilo, come se finalmente li guardasse un essere umano a piedi. Per cui si dice del Resegone che non è chi, al primo vederlo, purché sia di fronte....
A quel punto anche i pendii e i viottoli, visti prima dall’alto, sono descritti come se fossero «camminati» con suggestioni non solo visive, ora, ma anche tattili. Solo a quel punto il visitatore, che cammina, arriva a Lecco. E qui Manzoni compie un’altra scelta: dalla geografia passa alla storia e quindi narra la storia del luogo che ha appena descritto geograficamente. Siamo, grosso modo, alla fine della prima pagina.
Non è bello? Ecco che questa pagina, sintatticamente così irta, non ci appare più misteriosa, è una grande panoramica con carrellata, è una discesa a volo d’uccello, e se non è fatta attraverso lo sguardo della televisione, è fatta attraverso gli occhi della Provvidenza, ovvero a volo d’angelo. Una planata superba. Allora si capisce perché i punti fermi debbono stare dove stanno, non prima e non dopo. I periodi non sono lunghi e ansimanti, hanno il respiro di un aliante. C’è di che riconciliarsi con i Promessi Sposi. Quel signore era forse poco simpatico, malgrado i buoni uffici di Natalia Ginzburg. Ma il libro di quel signore, che bello! Leggetelo e rileggetelo, ragazzi, sotto il banco, mentre il professore parla d’altro. Vi invito a una lettura clandestina di Manzoni, come se fosse un libro proibito. Forse lo amerete. >> Umberto Eco
A proposito dei soliloqui di Don Abbondio mentre è costretto a salire al castello dell’Innominato:
<< Il cardinale visto da Don Abbondio è disceso dall’invisibile pergamo, in cui l’avevamo visto nel colloquio con l’innominato, ed è diventato un personaggio quotidiano, familiare, col quale si può fare a maggiore confidenza E’ un gran dire che tanto i santi come i birboni gli abbiano ad avere l’argento vivo addosso. I santi ed i birboni, per l’eroe della piccola ragione, sono molto vicini tra di loro; sono essi gli eroi della virtù attiva, sempre in moto loro, e che vorrebbero tirare in ballo tutto il genere umano. Per un uomo dalla passiva prudenza è perfettamente giusto che birboni e santi siano accomunati insieme. La logica di don Abbondio è coerentissima. Non c’è nulla di irriverente da parte di lui in quel mettere insieme il cardinale con un facinoroso come don Rodrigo e con un ancor presunto facinoroso come l’innominato. Dalla prima battuta fino all’ultima birboni e santi fanno un’immagine sola nel cervello di Don Abbondio. […] Parole forti egli adopera per l’innominato: un uomo che ha messo sottosopra il mondo con le scelleratezze e ora lo mette sottosopra con la conversione; e infine la maggior inclemenza di giudizio è per il cardinale; non solo accomuna il santo coi birboni, ma addirittura si mette a verseggiarne le parole e i gesti (subito, subito, braccia aperte, caro amico, amico caro, presto di qua, presto di là); lo accusa di precipitazione, anzi di poca flemma, di poca prudenza, di poca carità. In questo rovesciamento di valori, don Abbondio è fedelissimo alla sua logica: ritorna il personaggio del primo capitolo, quel rigido censore di tutti i faccendoni, specialmente degli ecclesiastici, che vogliono raddrizzare le gambe ai cani, e mischiarsi nelle cose profane a danno della dignità del sacro ministero. Don Abbondio, come tutti gli spiriti gretti, non se la prende tanto contro gli oppressori ed i prepotenti, ma piuttosto contro chi tenta di reagire all’oppressione ed alla prepotenza.>> Luigi Russo
Renzo torna al paese durante la peste:
<< Alla fame si aggiunge la peste. Renzo torna verso casa sua: com’è reso lo scoramento senza parole e senza pianto, che incute la vista d’un paese un tempo tranquillo e fiorente, ora taciturno, sparso di miserie e di lutti! Non c’è la commozione, ma quella stanchezza, quell’abbattimento, che non cerca nemmeno più uno sfogo, che non è nemmeno più rassegnazione, ma immobilità intontita sotto la percossa. S’indovina del modo di disegnare di Manzoni la commozione chiusa, lo stupore che la sventura possa giungere a tanto. Le linee sono rigide, scarbe, e spirano esse stesse – con la loro precisione severa – lo squallore della scena. Tonio è reso dalla peste così simile al fratello scimunito da potere essere scambiato con lui; in questo solo particolare è tutta la sua miseria […] . Incantato dalla malattia, ripete meccanicamente quell’unica frase A chi la tocca, la tocca, che è l’unico resto di pensiero che gli abbia lasciato la peste. La sua coscienza è tutta in quelle sei parole, dove risuona come in un immenso vuoto la devastazione dell’immane sventura. Dopo averle pronunciate rimane con la bocca aperta, come ripetendole dentro di sé – senza suono – in una fissità di ebete. Tonio non è più che la preda abbandonata dalla peste. La comicità di Gervasio muore nell’incantato squallore di Tonio: il ritratto di quest’inebetito è una delle più alte fantasie manzoniane.
L’effetto che produce questa frase è sobrio: Renzo seguitò la sua strada, più contristato e basta; è il solito raccoglimento del Manzoni.
La costernazione è il tono continuo di queste pagine dove passano, con una sobrietà immortale, i dolori di tutto un popolo. […]
Renzo prosegue il suo cammino, in cerca di un amico. Lo trova che è quasi buio; il dialogo che segue riflette in quella sola figura di sopravvissuto l’intero paese deserto, il corteo uguale, interminabile delle sepolture. Si sente lo sgomento freddo di quella solitudine, il grigio di quell’esistenza trascinata senza più nemmeno il pensiero d’un barlume lontano. Sai dice a Renzo sai che son rimasto solo? solo! Solo, come un romito! : e ripetendo tre volte, in tre toni diversi, la sua sventura, sembra che guardi dentro di sé il suo smarrimento. Poi l’idea ritorna, quasi con la monotonia intontita di Tonio, quando ad un tratto, mentre sta per far la polenta all’ospite, gli cede il matterello e se ne va dicendo: Son rimasto solo: ma! son rimasto solo! . Cose da levarvi l’allegria per tutta la vita dice a Renzo con una tristezza penetrante; ma però, soggiunge con un conforto soave a parlarne tra amici, è un sollievo. E così lo spirito frenato del Manzoni, che non osserva mai una faccia della vita senza veder l’altra, diffonde sulla scena una dolcezza accorata; per lui l’angoscia non è mai senza sollievo, perché gli spiriti sani, anche nelle ore più fosche non posson restar di volgere l’occhio a Dio o di cercare un riposo nel bisogno di amare. Questa malinconia affettuosa è una dellle innumerevoli prove dell’umanità del Manzoni, che scende con ineffabile naturalezza nei cuori lieti, pensosi, tormentati, e coglie il loro segreto, come se vivesse in loro, con una simpatia quale hanno solo i grandi creatori. >>
Attilio Momiliano
Don Abbondio fugge dal paese dove stanno per passare i lanzichenecchi:
<< Il gesto di Perpetua, che richiude e ripone la chiave in tasca, allude chiaramente alla violenza che sta per abbattersi su quella casa. […] Si ripensa ancora una volta al capitolo VIII, a quello stesso uscio lasciato negligentemente aperto da Perpetua, a quell’innocua invasione dei due promessi nella canonica, a quella tranquillità presto ricomposta, e insieme a quella casa di Agnese messa sottosopra dalla spedizione dei bravi, a quella chiave consegnata da Agnese con un così umano sospiro a fra Cristoforo, a quella fuga di Renzo e Lucia. La situazione ora appare rovesciata. I punti di contatto segnano degli sviluppi opposti. Quella era la fuga di Lucia, questa è la fuga di don Abbondio. Così la chiesa, a cui Lucia rivolgeva il pensiero con nostalgia affettuosa, congiuntamente a quello della casa, in don Abbondio desta soltanto un’occhiata indifferente, un infastidito brontolio in cui essa viene respinta come cosa che non lo riguarda, tale da imporre un dovere non a lui ma agli altri (Don Abbondio diede, nel passare, un’occhiata alla chiesa, e disse tra i denti: ”al popolo tocca a custodirla, che serve a lui”). E la visone provvidenziale degli avvenimenti, la certezza di Lucia che Dio è per tutto, e non turba mai la gioia dei suoi figli, se non per prepararne loro una più certa e più grande, cede il posto alla meschina visione politica di don Abbondio, il quale dopo aver sospirato e risospirato, e poi lasciato scappare qualche interiezione, incomincia a brontolare più di seguito, prendendosela col duca di Nevers, con l’imperatore, col governatore, tutta gente che avrebbe potuto o dovuto vivere in pace, e si metteva invece a far la guerra. […] E sono in sé sacrosante verità, condivise senza dubbio dall’autore, e tuttavia divenute in bocca al curato espressione di un modo di pensare egoistico (si capisce che quel conto che hanno da rendere quei signori è dovuto soprattutto al disturbo recato a lui, don Abbondio) […] . Tra l’autore e il suo personaggio si manifesta costantemente una specie di vicinanza-lontananza ideale. E basti pensare alla situazione-base determinata dal dolce idillio della casa, che Manzoni approva, senza accettarne però le egoistiche conseguenze a cui don Abbondio lo porta. >> Giovanni Getto
Sulla conversione dell’Innominato:
<< Osserviamo come il Manzoni ha con molta esattezza scandito questi tre successivi momenti del ritrovamento interiore di Dio; innanzi tutto il sentimento della morte, poi il sentimento del giudizio individuale, ed infine il sentimento della presenza di Dio. [...] Manzoni in questi tre momenti, senza formule filosofiche, nella rappresentazione trasparente della poesia, ci ha saputo descrivere tutto il capovolgimento di una visione filosofica della vita. Il Manzoni è stato profondamente accorto nel mettere per ultimo il sentimento della presenza di Dio, il quale è al di sopra di ogni nostra volontà. Quest’ultimo sentimento invero è quello che rovescia la visione dell’Innominato: Io sono però. L’oggetto che ha una sua esistenza immutabile, al di fuori ed al di sopra del soggetto che lo pensa. Gli altri due momenti precedenti sono vagamente religiosi, ma non sono ancora concretamente religiosi nel senso di una religione positivamente intesa. Tutti possiamo avere un senso religioso della morte, tutti avvertire la paura di un giudizio eterno, il giudizio stesso degli uomini, il giudizio della storia che è anch’essa una forma di eternità, la giustizia stessa delle cose che si viene compiendo mentre noi viviamo ed operiamo; non per questo, noi siamo entrati nel mondo di una religione positivamente intesa, di una religione del trascendente. Per sentirci al centro di questa religione del trascendente, dobbiamo giungere all’aperto e pauroso riconoscimento di qualche cosa che è, che esiste al di fuori di noi, al di fuori della nostra volontà. Ed è quello a cui giunge l’Innominato, il quale fin da questo momento dunque si converte non già ad una vaga e generica religiosità, ma ad una precisa puntuale e positiva religione del trascendente. [...] Ma volevo piuttosto rilevare come il Manzoni non ci fa giungere ex abrupto a questo capovolgimento di visione; tale conversione, dico, appare preparata, graduata, da quelle due precedenti fasi del pensiero della morte, del timore del giudizio eterno. [...] Da ciò i combattimenti della sua volontà contro la lenta invasione di questi pensieri religiosi: una troppo immediata adesione a codesti pensieri religiosi sarebbe stato segno di superficialità, segno di un rugiadoso ottimismo catechistico da parte del Manzoni stesso. [...] Qui si chiude la pagine critica, per dir così, sulla conversione dell’Innominato, che è forse la più profonda e la più intensa dell’episodio, dove ogni paragrafo segna un avanzamento nella parte più occulta della coscienza. >> Luigi Russo