So che Paasilinna è un autore estremamente apprezzato, e giuro che ho cercato in tutti i modi di farmelo piacere: anni fa avevo provato a leggere “Piccoli suicidi tra amici”, e poi lo stesso “L’anno della lepre”, ma il risultato era stato sempre lo stesso: noia, noia e ancora noia, e lettura abbandonata circa a pagina cinquanta.
Questa volta mi sono sforzata di andare un poco oltre, e alla fine sono riuscita a terminare la lettura, ma ammetto di averlo fatto solamente perché ciò che volevo davvero leggere non era ancora arrivato in biblioteca, quindi avrei comunque avuto una serata da riempire senza una lettura interessante.
Il problema di questo romanzo è che avrebbe avuto tutte le carte per piacermi, ma tutto è naufragato in un mare di piattezza stilistica. O forse il problema sono io, che non ho centrato il punto del romanzo, perché l’impressione che ho costantemente avuto è stata piuttosto quella che un punto vero proprio, semplicemente, non esistesse.
Per carità, ho capito benissimo quali sono i nodi centrali del racconto, ho capito l’ideologia e per certi versi apprezzo questa fuga dal mondo caotico, civilizzato e imbrigliante per seguire i ritmi sani e pacifici della natura, però, francamente, ho detestato il modo in cui l’autore ha sviluppato il tutto. C’è un giornalista depresso che viaggia in auto con un fotografo depresso, i due urtano una lepre, la feriscono, il giornalista decide di seguire l’animale e non fa più ritorno alle macerie della sua vita: questa dovrebbe essere la premessa di un romanzo umoristico, e invece si rivela la premessa di una serie di episodi uno meno realistico dell’altro, che si susseguono piattamente, senza mai che ci sia un cambiamento, uno scossone, un climax verso cui far innalzare la narrazione. Tutto fila via liscio, il protagonista non cambia di una virgola, le avventure di Vatanen e del suo leprotto avrebbero potuto essere due come cento senza che per il romanzo cambiasse niente, e alla fine mi sono ritrovata letteralmente a chiedermi: “embè?”.
Sarò io che ho poco senso dell’umorismo, ma durante questa lettura non ho mai riso, né sorriso. Insomma, se basta un prete che si spara ad un piede e la moglie di un diplomatico che mangia minestra allo sterco di lepre per dare ad un romanzo l’etichetta di “romanzo umoristico”, allora direi che sono contenta di non leggere quasi mai romanzi del genere.
Certo, poi ci sono paesaggi meravigliosi descritti in maniera magistrale, ma non bastano gli scorci mozzafiato delle lande finlandesi a salvare un romanzo che, temo, fra qualche mese non avrà lasciato la minima traccia in me.