Adesso vi dirò una cosa che potrebbe sconvolgervi, per cui tenetevi forte... C’era un tempo in cui Joyce non esisteva.
Ma sì, dico sul serio! C’era un tempo, ormai quasi un secolo fa, in cui la letteratura mondiale non aveva ancora affrontato l’ingrato, estenuante ma direi fatale compito di confrontarsi con Joyce e la sua opera più celebre, l’Ulisse.
Ora, questa notizia potrebbe scioccarvi – come è successo a me – oppure, se Joyce è solo un nome che vi fa una paura tremenda (e come darvi torto?), potrebbe lasciarvi nella più completa indifferenza. Perchè non sempre conosciamo l’origine delle cose che pure amiamo... le amiamo e il nostro amore ci fa credere che siano esistite da sempre, ma non è così.
Una volta quindi Joyce non c’era. Eh già. E come si faceva? Si faceva che c’erano tanti altri grandissimi autori, per carità, ma non c’era lui. Non c’era ciò che ha creato lui e che adesso diamo per scontato, acquisito, perché lui un giorno si è preso la briga di tirarlo fuori dal cilindro che era la sua penna. Si può essere grandi in molti modi, ma ce n’è uno davvero speciale, che è quello di inventare qualcosa che prima non esisteva e, allo stesso tempo, di farlo in un modo che costituisce di per se stesso il “vertice non superabile”, il massimo dispiegamento della propria potenzialità. Mi spiego: la vera grandezza di Joyce, e di pochi altri artisti come lui (nella letteratura moderna penso a Proust e Musil, rispettivamente ne “La Recherche” e ne “L’uomo senza qualità”), è quella di avere creato un nuovo modo di fare letteratura (in questo senso sono diventati dei veri e propri “progenitori” di un’infinita discendenza...) e insieme averne raggiunto l’apice.
Ricordo la bella recensione di Bonadext su L’uomo senza qualità, nella quale scrive che Musil con quest’opera “è arrivato a un punto da cui non si può più fare ritorno”. Sono d’accordo: da Joyce, Musil, Proust costituiscono punti di non ritorno e allo stesso tempo, ciascuno nella propria “invenzione”, rappresentano il limite oltre il quale non è possibile andare. Sono artisti “congelati”, dunque? No, perchè ognuno di essi, come dicevo prima, è diventato una sorgente per nuove correnti, alcune delle quali hanno preso direzioni diversissime, con risultati magari più facilmente apprezzabili rispetto all’originale, ma che ad essi innegabilmente devono la propria ragione d’essere.
Joyce in particolare – che nella vita deve essere stato un tipo difficile e, se il suo stile parla per lui, pure abbastanza spocchioso – ha incarnato questi “paradossi” in modo ancora più radicale, sacrificando sull’altare di una rivoluzione senza precedenti la possibilità di essere amato. Lo ripeterò fino alla noia: ho amato profondamente Musil ne L’uomo senza qualità, non ho potuto amare l’Ulisse, benché sia riuscita a detestarlo in alcuni punti e in altri ad ammirarlo senza riserve. Troppo cerebrale, troppo “perfetto” nelle sue intenzioni e realizzazioni, fra le quali, secondo me, c’era appunto la volontà di inventare un nuovo linguaggio e uno, anzi diciotto stili l’uno diverso dall’altro, ma non quello di arrivare al cuore del lettore.
Di questa impossibilità di emozionarmi – a eccezione forse di pochissimi episodi, primo fra tutti il celeberrimo monologo di Molly in “stream of consciousness” – me ne sono resa conto la prima volta che ho provato a intraprendere questa lettura, quasi tre anni fa... stavolta quindi mi sentivo più forte, più preparata a incassare anche eventuali delusioni, consapevole che comunque mi trovavo di fronte a qualcosa di “estremo”.
Ma cos’ha poi questo Joyce di così speciale, e di così temibile soprattutto? Spiegarlo senza darne direttamente un assaggio – cosa che non ho alcuna intenzione di fare – è impossibile, per cui rinuncio a priori all’impresa. C’è però una cosa che mi ha colpito, uno dei tanti aspetti della “rivoluzione joyciana” che secondo me merita di essere considerata, ed è la “posizione” in cui si colloca lo stile o, per meglio dire, gli stili dell’Ulisse.
Si è detto che l’intento di Joyce (e una certa dose di autocompiacimento traspira innegabilmente dalle pagine del romanzo) non era di farsi amare, e nemmeno di raccontare semplicemente una storia, seppure in modo originale. No, lui secondo me era ben conscio di quello che stava facendo e cioè fondare un nuovo linguaggio che, fra le altre cose, fosse più aderente ai meccanismi della coscienza, della percezione. Ne sono un esempio il memorabile terzo episodio (forse quello che ho trovato più difficile di tutti), intitolato Proteo, in cui i suoni e gli stimoli esterni si mescolano ai pensieri di Stephen, confondendosi in una materia non a caso proteiforme; o il quindicesimo, geniale nella sua modernità e direi persino preveggenza, un vero inno letterario al subconscio; o ancora il diciottesimo, laddove il flusso di coscienza per cui Joyce è tanto famoso si dipana nella sua forma più estrema: più di quaranta pagine senza alcun segno di punteggiatura che faccia da filtro fra la semicoscienza di Molly (a metà strada fra il sonno e la veglia) e il modo in cui questa viene espressa.
Bè, quello che ho pensato è che ciononostante sarebbe un errore parlare di “realismo” letterario. É vero, indubbiamente Joyce ha fatto quello che nessuno aveva mai osato: ha rotto gli argini della forma tradizionale fino alle estreme conseguenze. Inutile ripeterlo: a partire dall’Ulisse la letteratura non sarà più la stessa. Però ritorna quella contraddizione di cui parlavo all’inizio: se è vero che con Joyce cadono i filtri artistici, linguistici, che separavano il mondo esterno dalla coscienza , è anche vero il suo linguaggio resta pur sempre un artificio, si plasma in una forma tutta sua. É difficile da spiegare, non so neanche se la mia intuizione sia corretta o no... ma mentre leggevo il monologo di Molly pensavo: davvero se la mia mente fosse libera di esprimere se stessa, la sua traduzione letterale e letteraria sarebbe questa, un interrotto flusso di parole e ardite associazioni di idee? Per certi versi sì, lo sarebbe: di sicuro i nostri pensieri non conoscono punteggiatura e la nostra mente vaga in modo apparentemente discontinuo e disordinato, seguendo fili a lei sola noti. Ma è anche vero che il modo in cui Joyce elabora questa intuizione resta, a mio avviso, una forma d’arte e, come tale, qualcosa di “costruito”. Non quindi una semplice per quanto rivoluzionaria trasposizione realistica dei meccanismi della nostra coscienza, bensì uno straordinario punto d’incontro fra questi meccanismi (nei quali rientrano la percezione degli stimoli esterni, la loro elaborazione, ricordi, paure, perversioni...) e la letteratura. Per questo parlavo di “posizione”: lo stile di Joyce si colloca esattamente a metà strada fra la coscienza e la creazione letteraria, il realismo e l’artificio.
Un nuovo linguaggio, insomma. Voleva farlo e ci è riuscito.
Io molto più di questo non riesco ad aggiungere (ho scritto anche troppo...). Bene o male nessuno si sognerebbe di dire che Joyce e soprattutto l’Ulisse non si meritano il posto che la Storia ha assegnato loro, per cui neanche sottolineo, come ho fatto altre volte, che con questo romanzo siamo di fronte a un Capolavoro. E chi non lo sa? É anche vero che, se non nessuno, pochi avrebbero però il coraggio di affermare che non si tratta di una lettura estremamente complessa e faticosa e che, per leggerla, occorre aver “deciso” di farlo, armati di una certa dose di caparbietà e direi persino di masochismo.
Detto questo, quando ci si trova di fronte a un’opera di questo “peso”, oltre alla ovvie “ansie da prestazione” che credo prendano un po’ tutti, non si può che sospendere ogni giudizio, persino ogni forma tradizionale di godimento (quel piacere spontaneo che ci prende quando leggiamo un bel libro... ecco, scordatevelo!) e riconoscere che –incredibile ma vero – una volta Joyce non c’era.
Poi è arrivato... ed è cambiato tutto.