Rileggilo e vedrai che ti accorgi che è un'opera molto fine
Certo che le minuziose descrizioni di come dei serpenti giganti stritolano ed ingoiano la gente sono proprio il massimo della finezza… :???:
Bulgakov non si abbandona mai alla narrativa pura, non è nella sua natura.
E quando nel
Maestro si sofferma a descrivere i lauti pasti che si facevano al club degli scrittori, la “battaglia” del gatto con la polizia, le “ultime avventure” di questi e Fagotto per i locali di Mosca, quando elenca gli ospiti della festa di Woland, oppure quando in
Cuore di cane narra l’episodio di Sarikov che allaga il bagno inseguendo un gatto, che cosa sta facendo allora?
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Il nome del funzionario che da ordini a Persikov è Rokk; la parola rok in russo significa fato. Infatti, Bulgakov se la prende con lo Stato-idolo che si sostituisce a Dio.
Troppo vago per essere una critica al “sistema”; non credo proprio che il regime si sia sentito sotto attacco per il semplice fatto che il nome di questo funzionario suona come “fato”. Se io metto in un libro un personaggio negativo e lo chiamo "Libertà", secondo te Berlusconi se ne risente? O le parole "fato" e "Partito Comunista" erano diventate sinonimi in quegli anni, tanto che nessuno poteva più scrivere la prima senza alludere per forza alle seconde?
Inoltre c'è una polemica feroce contro le nuove istituzioni di gestione agricola, i sovchoz
E in cosa si vede questa polemica? Nel fatto che il Rokk è a capo di un
sovchoz? Ma è lui a sbagliare con le uova, non l’istituzione. Io non mi ricordo che ci siano critiche all’organizzazione o all’idea di
sovchoz nel racconto.
Bulgakov si scaglia contro i dirigenti incapaci, messi al loro posto solo perché membri del partito: infatti, Rokk è un ex flautista che prima della rivoluzione non si era mai interessato alla politica.
Ma quello di Rokk nel racconto è un caso singolo (e comunque non peculiare alla Russia sovietica: in tutti gli Stati la militanza politica favorisce l’accesso a delle cariche dirigenziali), non coinvolge tutto il sistema. Non ricordo niente nella storia che suggerisca come questo tipo di funzionari incapaci fosse molto diffuso. Da cosa dovremmo arguire che Rokk era il funzionario-tipo?
La questione dello scambio di casse è di nuovo emblematica: in URSS, siccome era tutto statale, spesso le cose venivano fatte con molto pressappochismo che non può avere che conseguenze nefaste.
Questa mi sembra proprio tirata per i capelli. Se io metto in un libro un errore delle Poste, mi sto scagliando contro il Governo secondo te?
Nel complesso, non mi pare che questi elementi bastino a fare del racconto un’opera eversiva, come sono invece il
Maestro e
Cuore di cane secondo me. Queste due opere sì che attaccano direttamente la dittatura nei suoi punti dolenti (la facilità con cui si viene arrestati nel
Maestro, i discorsi controrivoluzionari del professore in
Cuore di cane, in entrambi la cronica carenza di alloggi…).
A conferma di ciò, anche se in seguito tutta l’opera di Bulgakov fu proibita, per qualche anno
Le uova fatali fu comunque pubblicato, gli altri due invece mai. Appunto perché nel primo la satira "politica" è ancora blanda, indefinita, non tocca i cardini del sistema sovietico. Ci mostra un funzionario che sbaglia, non un sistema politico liberticida ed inetto.
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A questo punto che importa che siano serpenti giganti? Potevano anche essere scarafaggi microscopici oppure farfalle bioniche.
Importa molto invece: importa dal punto di vista “artistico”. La bravura di uno scrittore si vede prima di tutto nella forma che riesce a dare alle sue idee. Se ne hai voglia, prova a leggere questo passo dalla seconda parte di
Gulliver, quella dei giganti:
<< Atterrito e confuso com'ero, mi perdevo in queste riflessioni, quando uno dei mietitori giunse a meno di dieci metri da me. Sapevo ormai che alla prossima mossa sarei stato schiacciato dal suo piede o tranciato dal suo falcetto per cui, quando quello stava per muoversi, gridai con quanta forza avevo in corpo. Al che quella creatura colossale si fermò di colpo, osservò tutt'intorno per un po', finché mi vide acquattato per terra. Mi osservò con la cautela di chi cerca di acchiappare un qualche animaletto pericoloso evitandogli di mordere o di graffiare, come mi è capitato di fare con le donnole in Inghilterra. Alla fine si azzardò a prendermi dal di dietro, stringendomi la vita fra il pollice e l'indice, portandomi all'altezza dei suoi occhi e a una distanza di tre metri da essi, per potermi vedere meglio.
Capii al volo la sua intenzione e per fortuna ebbi la presenza di spirito di non dibattermi mentre mi sollevava in aria, quantunque mi stringesse forte ai fianchi per paura che gli scivolassi fra le dita.
Osai solo alzare gli occhi al cielo, giungendo le mani in atto supplichevole, pronunciando poche parole in tono umile e implorante, adatto alla condizione in cui mi trovavo, perché sentivo che in ogni momento mi avrebbe potuto sbattere per terra, come in genere si fa con certi animaletti rabbiosi che si vuole ammazzare. Per fortuna, lui sembrò attratto dalla mia voce e dai gesti e cominciò a guardarmi più con curiosità che con sospetto, meravigliato di sentirmi articolare la voce in parole che pure non poteva comprendere. Nel frattempo non potei trattenere i gemiti e le lacrime, girando la testa verso i fianchi, come per fargli capire il dolore che mi procurava la stretta delle sue dita. Lui sembrò capirmi, perché alzò la falda della giacca deponendomici sopra con delicatezza, mettendosi a correre verso il suo padrone, un facoltoso agricoltore, il primo che avevo visto nel campo.
Dopo che il contadino ebbe raccontato al suo padrone di avermi trovato, come capii dal loro discorso, quest'ultimo, presa una pagliuzza grossa come un bastone da passeggio, mi alzò le falde della giacca, perché forse credeva che fossero delle protezioni naturali; poi mi soffiò sui capelli per guardarmi meglio il volto. Allora chiamò i vari garzoni e chiese loro se per caso avessero mai visto nei campi creature come me e quindi mi posò pian piano per terra sulle quattro gambe, ma io mi alzai subito in piedi e cominciai a passeggiare avanti e indietro assai lentamente, come per fare capire a quella gente che non avevo nessuna intenzione di fuggire. Loro si sedettero in circolo intorno a me per osservare meglio le mie mosse: mi tolsi il cappello e feci una gran riverenza verso l'agricoltore, poi m'inginocchiai alzando le mani e gli occhi al cielo, parlando più forte che potevo.
Tirai fuori di tasca una borsa di monete d'oro e gliela porsi con deferenza; lui la tenne sul palmo della mano, se la portò vicinissima agli occhi per vedere di che cosa si trattava, poi, con la punta di uno spillo che sfilò da una manica, la rigirò più volte, senza tuttavia intuire cosa fosse. Gli feci capire di distendere la mano al suolo ed allora, aperta la borsa, riversai tutto l'oro sulla palma.
Conteneva sei scudi spagnoli di quattro pistole l'uno ed altre venti o trenta monete spicciole; vidi che si bagnava con la saliva la punta del mignolo per prendere una o due monete d'oro, senza tuttavia rendersi conto di che cosa si trattava. Mi fece capire a segni di rimettere le monete nella scarsella e la scarsella in tasca, cosa che pensai opportuno di fare, dopo avergliela offerta più volte.
L'agricoltore era ormai certo di trovarsi dinanzi ad una creatura dotata di ragione. Fu così che tentò più volte di parlarmi con quella sua voce che mi rintronava negli orecchi con il frastuono di un mulino a vento, sebbene le sue parole fossero variamente articolate. Gli risposi con tutto il fiato che avevo in corpo, in diverse lingue, mentre lui avvicinava l'orecchio ad un paio di metri; ma invano, perché era come se stessimo parlando fra sordi. Allora mandò i servi di nuovo al lavoro e tirò fuori di tasca il fazzoletto, spianandolo e piegandolo in due sulla mano distesa a terra con la palma rivolta verso l'alto, facendo segno di saltarci sopra. Non mi fu difficile obbedirgli, perché avevo davanti uno spessore di non più di trenta centimetri e, per paura di cadere, mi distesi tutto lungo, mentre lui mi rimboccò fino alla testa con il rimanente del fazzoletto. E in questo modo mi portò a casa sua.
Appena arrivato, chiamò sua moglie aprendo il fazzoletto: quella fece uno strillo e un salto indietro, come fanno le donne alla vista di un ragno o di un rospo. Ma quando pian pianino ebbe preso un po' di confidenza con me ed ebbe visto come obbedivo a puntino ai segni che suo marito mi faceva, si riebbe ed anzi finì per affezionarmisi. Si era ormai a mezzogiorno e una fantesca portò in tavola il pranzo che consisteva in un'unica portata di carne, come si fa in casa dei contadini, in un piatto dal diametro di sette metri. Quella famiglia era composta dall'agricoltore e da sua moglie, tre figli e una nonna, una vecchia più di là che di qua. Quando si furono seduti, l'agricoltore mi posò a poca distanza da lui sulla tavola, alla vertiginosa altezza di quasi dieci metri da terra.
Per paura di cadere cercavo di tenermi il più possibile lontano dagli orli. La moglie tagliò uno spilluzzico di carne, poi sminuzzò del pane sul piatto di legno e me lo mise davanti. Mi sentii in dovere di farle una bella riverenza e quindi, estratti il mio coltello e la mia forchetta, mi misi a mangiare con un gusto beato. La padrona mandò la fantesca a prendere un bicchierino da liquore della capacità di due galloni e lo riempì di vino; presi il vaso con tutte e due le mani e alzando a gran fatica bevvi alla salute della signora, urlando i migliori ossequi nella mia lingua, il che li fece scoppiare dal ridere, tanto che rimasi mezzo intontito dal fracasso. Quel vinello sapeva di sidro e non era poi male. Allora l'agricoltore mi fece segno di andare vicino al suo piatto, ma mentre camminavo sulla tavola tutto eccitato, come vorrà comprendere il lettore benevolo, inciampai su una crosta cadendo bocconi sulla tovaglia, senza tuttavia farmi male. Mi rialzai di scatto e vedendo che quella buona gente era rimasta spaventata, presi il cappello, che tenevo sotto il braccio secondo la buona creanza, e mulinandolo sopra il capo detti tre evviva per dimostrare che non mi ero fatto niente. Mentre mi avvicinavo a quello che d'ora in poi chiamerò il mio padrone, il più piccolo dei suoi figli, che gli sedeva accanto, un moccioso screanzato di una decina d'anni, mi sollevò per le gambe tenendomi sospeso tanto in alto, che tremavo da capo a piedi; ma suo padre mi strappò dalle sue mani affibbiandogli allo stesso tempo un tale ceffone sull'orecchio, da scaraventare a terra un reggimento di cavalleria, ordinandogli di alzarsi da tavola. Ma per paura che il bambino se la potesse prendere con me, e conoscendo bene la crudeltà dei bambini nei confronti dei passeri, dei conigli, dei cuccioli di gatti e di cani, mi inginocchiai e, indicando il figlio, feci capire al mio padrone che lo perdonasse.
Il padre acconsentì e il bambino riprese il suo posto, mentre mi avvicinai alla sua mano per baciargliela; allora il padrone gliela prese costringendolo a farmi una specie di ruvida carezza. […]
Alla fine del pranzo, entrò la balia con in braccio un poppante di un anno che, dopo avermi osservato per un po', cominciò a strillare così forte, come fanno i bambini quando si impuntano per qualche capriccio, che dal Ponte di Londra le sue grida si sarebbero sentite fino a Chelsea. Presa da compassione, la madre mi prese e mi porse al bambino il quale, afferratomi per la vita, si ficcò la mia testa in bocca; mi misi a urlare così forte che il piccino si impaurì e mi lasciò cadere. Mi sarei senza dubbio rotto l'osso del collo, se la madre non avesse teso sotto di me il suo grembiule. Per placare il fanciullo, la balia ricorse a un sonaglio, costituito da una specie di orcio con dentro dei macigni e appeso al collo del poppante con un robusto canapo. >>
e confronta la potenza fantastica, perfettamente controllata e senza cadute di gusto, la capacità di rendere credibili e quasi viva davanti ai nostri occhi la situazione, la precisone dei dettagli, l’esattezza dei comportamenti (il poppante che, proprio come essi fanno nella realtà con bamboline, soldatini, etc…, afferra Gulliver e si mette la sua testa in bocca), la straordinaria naturalezza con cui il sarcasmo di Swift emerge dalla narrazione (i giganti sono tratteggiati con tutto il cinismo e il senso di onnipotenza dell’uomo nei confronti dei piccoli animali), confronta tutto questo con la disgustosa e inutile descrizone particolareggiata di come i serpentoni di Bulgakov si pappano la gente e dimmi tu se la scelta dei suoi mostri era una cosa senza importanza, se Bulgakov non avrebbe potuto inventare qualcosa mille volte migliore invece di abbandonarsi al gusto dell’orrore…
Le creature mostruose sono solo un espediente narrativo.
Magari fossero solo questo! Invece Bulgakov evidentemente si compiace a descrivere questi mostri, a mostrarceli “in azione”, a scatenargli contro l’esercito, tant’è vero che tutto ciò occupa parecchie pagine. E questo perché lui, come scrittore, ha, fra gli altri, il gusto dell’horror (ricordi le decapitazioni nel
Maestro? E la minuziosa descrizione dell’operazione sul cane Sarik?) e si lascia eccome andare alla narrazione pura (non sempre, certo, ma negli episodi che ho citato finora sì: del resto lo fanno moltissimi scrittori).
P.S.: Scusami per la lunghezza spropositata del post... :???: