In questo romanzo l'autore tratteggia con estrema delicatezza una Russia assai diversa da quella che viene rappresentata da Dostoevskij, che pure era suo contemporaneo. Come nella migliore tradizione letteraria russa, i personaggi sono caratterizzati con estrema dovizia di particolari, ma quello che li distingue dal grande maestro, è che non vi è un giudizio netto che classifichi i malvagi. In ogni contesto della vita sociale la quasi totalità dei personaggi è invece caratterizzata da grande apatia nei confronti della vita: ognuno a suo modo rifugge la fatica e il proprio dovere ricorrendo a vari stratagemmi, anche l'amore romantico come quello degli spensierati coniugi Manilov non è strumento di miglioramento di sé bensì è ridotto a mero sentimentalismo. Nella vita di ognuno trova così facile spazio la frivolezza e superficialità, la corruzione dilaga in ogni contesto della vita pubblica (come del resto succedeva pressoché ovunque
nell'Europa dell'800), sono l'avarizia e la cupidigia a farla da padrona, ma più in generale l'accidia, nel senso più spirituale e cristiano del termine, come spiega lo stesso autore per bocca di uno dei suoi personaggi più ammirevoli.
Parimenti "i buoni" non sono persone che si contraddistinguono per chissà quali eccezionali virtù o gesta eroiche: semplicemente sono coloro i quali, l'autore ne fa una ristrettissima cerchia, assolvono con coscienza e giudizio ai loro compiti quotidiani, si impegnano perché grazie all'onesto lavoro, sia loro che i loro sottoposti, possano beneficiare e godere del bendidio (letteralmente) che la natura offre loro; stando così concentrati sul lavoro sfuggono alle tentazioni che la vita mondana (di cui Pietroburgo pare fosse la capitale) cerca di offrire loro, e migliorano se stessi. Pur scevri (la maggior parte almeno) da qualunque intento spirituale.
Personalmente, fin dai primi capitoli, l'intreccio degli eventi e l'approccio ad essi dei vari personaggi (di cui il protagonista Cicikov è indubbiamente "il vuoto porta vessillo"), mi ha riportato a un tema di cui oggigiorno non raramente si sente discutere: eh certo - si sente dire - una volta la gente era più felice perché non aveva tempo per pensare a tutte le cose complicate della vita, come invece facciamo noi, lavoravano tutto il giorno e poi andavano a dormire, troppo stanchi per pensare!
E' indubbio che una parte di queste persone, uno o due secoli fa, come oggi del resto si limitassero a lavorare aspettando che arrivasse il giorno dopo, e tuttavia secondo me, si sottovvaluta sempre troppo l'aspetto fondamentale della questione, ossia che quegli umili lavoratori non ricorrevano al lavoro per evitare la domanda, bensì nel lavoro trovavano l'autentica risposta. Si può coltivare la ritualità (proprio nell'accezione religiosa del termine) di un gesto, ritrovare la propria spiritualità in un'officina, arando i campi o lavando i piatti, non meno di quanto si possa fare in una chiesa o un tempio. Quello che fa la differenza non è il gesto in sé quanto lo spirito con cui ci si adopera, la sincerità con cui si cerca di realizzare qualcosa che sia bello per sé e per gli altri (per Dio, nel caso dei personaggi più religiosi del romanzo) e trovare così, o almeno poter accarezzare, l'autentica felicità.
Rimane il rammarico, così è spiegato nella nota introduttiva, che la seconda parte sia parzialmente incompleta mentre la terza sia andata completamente perduta.