Ho letto questo libro (il mio terzo scritto da Pamuk) all’interno di una Sfida che ha per tema “culture lontane dalla nostra” e per stabilire le cui regole ci siamo confrontati sul significato della contrapposizione Oriente/Occidente. Come primo libro credo che non avrei potuto fare una scelta più appropriata, ma la cosa non mi meraviglia più di tanto, avendo già riconosciuto in questo incontro/scontro fra le due culture uno dei temi cari al Nobel turco.
Il mio nome è rosso, Il libro nero e, adesso, Neve: in ognuno di questi romanzi (e ogni volta in modo diverso) Pamuk si interroga sulla natura della distanza fra l’Oriente nel quale lui è cresciuto (la Turchia della seconda metà del secolo scorso) e il suo diretto rivale, ma anche modello a cui ispirarsi: l’Europa. Inutile fingere che alcune differenze non siano sostanziali, inutile anche illudersi che scegliere la strada della modernizzazione e della democratizzazione tout-court non porti delle conseguenze, in quanto racchiude il pericolo di una perdita di identità e di valori e – ancora più grave – il rischio di cadere, per reazione contraria, nelle mani del fondamentalismo islamico.
Se quindi il tema del confronto Oriente/Occidente alla ricerca di un possibile dialogo è noto ai lettori Pamuk e ricorre in tutti i suoi romanzi, ognuno di essi ne sviluppa un particolare aspetto. Nel caso di Neve, il più “politico” di quelli da me letti finora, uno dei problemi centrali sembra essere il modo in cui ognuna delle due parti viene vista e “giudicata” dall’altra. In particolare, il modo in cui la cultura islamica, la fede in Allah e più in generale qualsiasi aspetto della sensibilità “non occidentale” sono visti e giudicati da quella che sembra l’unica posizione riconosciuta: quella europea. Da ciò deriva un senso di “inferiorità” che pesa come una costrizione su tutti coloro che vorrebbero invece vedersi riconoscere il diritto a essere “altro”, fino al punto di rovesciare questo complesso nel suo contrario.
In uno dei capitoli chiave del romanzo, in cui i rappresentanti di diverse fazioni politiche si incontrano per sottoscrivere una dichiarazione da pubblicare poi in un giornale tedesco, uno dei personaggi afferma:
"Nonostante i nostri amici non abbiano parlato come i disonesti imitatori dell’Occidente, qui c’è comunque un’atmosfera di scuse e di perdono per non essere europei. Adesso scriva: io sono orgoglioso del mio lato non-europeo. Sono orgoglioso di tutto ciò che in me l’europeo trova d’infantile, di crudele e di primitivo. Se loro sono belli, io sarò brutto; se loro sono intelligenti, io sarò stupido; se loro sono moderni, io rimarrò inoocente."
Similmente, a fine romanzo (in una sorta di “messaggio ultimo”) uno dei personaggi raccomanda al narratore, alter ego dello stesso Pamuk: “Se mi mette in un romanzo ambientato a Kars vorrei dire ai lettori di non credere assolutamente a ciò che dice di noi. Nessuno può capirci da lontano.” “Tanto non ci crederebbe nessuno a un romanzo del genere.” “No, ci crederebbero, – disse di getto. – Per considerare se stessi intelligenti, superiori e umani, vorranno credere che noi siamo ridicoli e semplici, e che loro ci possono capire così come siamo, arrivando addirittura a provare affetto nei nostri confronti. Ma se mette questa mia frase, nelle loro menti si insinuerebbe il dubbio.”
É una raccomandazione che suona pesante e che viene rivolta direttamente a noi lettori, noi che pretendiamo di riuscire a “immedesimarci” in un personaggio, di volergli persino “bene”, per il solo fatto di averlo incontrato e accompagnato nelle pagine di un romanzo. Ma chi conosce bene Pamuk – autore che per nascita, formazione, vocazione, rappresenta davvero un “ponte” tra due mondi – non si fa ingannare da queste parole dure. Sono sì un monito, ma non per sostituire un rapporto di sudditanza con un altro, bensì proprio per mettere in discussione la facilità con cui si tende a “giudicarsi” senza mettersi davvero nei panni dell’altro.
Inutile aggiungere che questo è solo uno, benchè a mio avviso fondamentale, dei mille tasselli che compongono questo straordinario mosaico (un altro di grandissimo interesse e attualità è quello della fede in Allah, del significato di questa fede e del suo essere necessariamente o meno legata alle frange dell’integralismo).
Ancora una volta Pamuk mescola questi messaggi profondi, attualissimi, a un’atmosfera insieme romantica e noir: ne risulta una lettura estremamente accattivante, nonostante la cadenza sia quella lenta e silenziosa dei fiocchi di neve sulle strade di Kars. La storia d’amore è ancora una volta occasione per interrogarsi sul senso e sulla possibilità di una felicità assoluta ed eterna e, in questo romanzo, assume un particolare significato proprio in rapporto alla “precarietà” di questa illusione, specie quando è generata da noi stessi, dal nostro bisogno di amare e di essere amati a tutti i costi per dare un senso alla nostra vita. L’alternarsi di estrema felicità e disperazione, la paura di perdere qualcosa che si percepisce essere tutt’altro che un “diritto” o una certezza... tutto questo si inserisce con grande armonia nel disegno complessivo di Neve, che consiglio per tutto ciò che ho scritto e per tutto ciò (molto di più!) che non ho avuto tempo e spazio di scrivere.