c' è poco da fare: la sintesi non è il mio forte... :W
È un atteggiamento sicuramente sbagliato, ma ho iniziato questo libro quasi fosse un personale “banco di prova” per Pamuk, scrittore turco e premio Nobel nel 2006, di cui avevo letto diversi anni fa Il mio nome è rosso. Quest’ultimo mi aveva lasciato un po’ perplessa: per certi versi bellissimo... ma, per quanto mi riguarda, non era riuscito a soddisfare appieno le enormi aspettative suscitate dalla prima metà del libro. In poche parole: un capolavoro mancato. Ma lo stile, i contenuti mi piacevano... sentivo che questo scrittore aveva qualcosa di forte, di profondo da dire; e poi i Nobel (la maggior parte delle volte, almeno...) non li danno mica a caso...
Non so se si tratti di un capolavoro, ma sicuramente Il libro nero è quello che Il mio nome è rosso nelle mie aspettative non è riuscito ad essere: un romanzo che mantiene ciò che promette. Un'opera densa, ricchissima, ma allo stesso tempo compiuta, compatta. E “compatto” è un termine molto azzardato, perchè la storia che ci viene raccontata è fatta di mille storie, mille personaggi, mille rimandi avanti indietro nel tempo e nello spazio: moltissimi sono i riferimenti alla letteratura orientale e occidentale (filosofi e mistici bizantini, ma anche Proust, Dostoevskij, Dante... un vero godimento per noi lettori!) ... e non solo!
Io stessa, leggendo questo libro, non ho potuto non pensare, per associazione, a una serie scrittori e romanzi: mi sono venuti in mente Una storia di amore e di tenebra di Amos Oz, la cui scrittura è ugualmente densa di informazioni e di riferimenti alla propria terra e alla propria famiglia; Domani nella battaglia pensa a me di Marìas, nel quale è altrettanto forte (benchè basato su un diverso presupposto) il tema dell’identità, fondamentale in questo libro; Calvino, nel suo particolarissimo Se una notte d’inverno un viaggiatore, che plasma il tema della creazione narrativa in un gioco di specchi che si riflettono l’uno nell’altro, all’infinito; e, da metà romanzo in poi, persino Eco, che ne Il pendolo di Foucault ci mostra quanto può essere pericoloso il potere della parola e la sua mistificazione...
Mi rendo conto che tutti questi riferimenti, senza un benchè minimo accenno alla trama (la quale per certi versi costituisce un “pretesto” per affrontare mille altri temi), non aiutano, ma rischiano anzi di confondere... per cui, per quanto trovi difficile sintetizzare un romanzo così complesso, faccio un passo indietro e ricomincio dall’inizio.
Il libro è costruito in modo molto particolare, ovvero l’alternarsi, uno di seguito all’altro, di capitoli dedicati alla vicenda vera e propria (nella fattispecie Galip, un giovane avvocato, cerca di ritrovare la moglie nonchè cugina Ruya, scomparsa nel nulla) ad altri in cui a raccontare – se stesso e la città in cui vive, ovvero Istanbul – è il cognato di Galip e fratellastro di Ruya, un rubricista noto in tutto il Paese. Di volta in volta Celâl, è questo il nome del giornalista, tratta argomenti diversi, sempre in qualche modo legati alla sua vita, ma apparentemente poco connessi l’uno all’altro e poco inerenti alla trama del romanzo. In realtà, basta poco per rendersi conto che non solo attraverso di essi passa il messaggio più importante del libro, ovvero il tema dell’identità – intesa come possibilità continuamente negata ma mai persa del tutto di essere autenticamente se stessi – ma che è proprio grazie ad essi, a ciò che essi rivelano, che Galip, e noi con lui, riuscirà a far luce sul mistero che avvolge la vita di sua moglie, di Celâl e di se stesso.
Scritto così sembra un vero e proprio “giallo” (e per certi versi lo è, ragion per cui nonostante la mole e l’oggettiva difficoltà è un romanzo che si legge tutto d’un fiato), ma in realtà è molto di più: perchè il “mistero” in questione non è qualcosa che si può risolvere con una serie di indizi e la scoperta del colpevole che mette tutti il cuore in pace... no, il mistero è “il mondo arcano dei significati nascosti” che “è presente in ogni luogo, ogni cosa, ogni oggetto, ogni persona: ogni goccia ha il sapore salato che porta al retrostante mistero.” Ogni cosa è “segno”, ovvero rimanda a qualcos’altro, e così via, all’infinito... L’apice di questo mistero è il volto umano, nei quali sono impressi in modo inequivocabile le lettere, attraverso la cui interpretazione si ha accesso a quel mondo “segreto” di cui sopra (è questa la scienza su cui è basato l’hurufismo, una particolare declinazione del misticismo islamico).
Quindi, volendo semplificare oltre misura, se volessimo scoprire il “mistero” del mondo dovremmo innanzitutto imparare a riscoprire e riconoscere noi stessi... ma quanto è difficile questo al giorno d’oggi? La domanda fondamentale che ricorre in modo sempre più esplicito pagina dopo pagina è: “esiste un modo per essere unicamente se stessi?”. Si potrebbe persino affermare che l’intero romanzo sia un tentativo da parte di Pamuk di rispondere a quest’unico drammatico interrogativo... e la sua posizione, in quanto turco, e per giunta di Istanbul (la “città-ponte” per eccellenza), è privilegiato: è quella di un uomo, di un popolo, che vive un eterno confronto/conflitto col proprio “rivale”... l’Occidente.
“Oriente e Occidente rappresentavano le due metà del mondo: erano due opposti che si respingevano e si rifiutavano, come bene e male, bianco e nero, angelo e diavolo. (...) La cultura che, ‘in quel particolare momento storico’, era in grado di scorgere nel mondo un luogo ambiguo, misterioso e brulicante di segreti, poteva imporre la propria supremazia sugli altri e dominarla. Coloro, invece, che vedevano nel mondo un luogo semplice, privo di ambiguità e mistero, erano condannati alla sconfitta e alla sua più diretta e immediata conseguenza, la sottomissione.”
Grandissimo peso (in apparenza come elemento puramente negativo, quasi di corruzione) è rivestito infatti dall’influenza del modello occidentale sul popolo turco, soprattutto attraverso il cinema e il mito delle “stelle hollywoodiane”. In un punto si parla del desiderio, trasformato quasi in ossessione, da parte del popolo turco, di diventare qualsiasi cosa purchè di “diverso” da se stessi: attraverso la riforma del costume, ad esempio, “i clienti in realtà non compravano un abito, ma un sogno. Quello che intendevano veramente acquistare era il miraggio di essere come gli ‘altri’ che vestivano in quel modo”.
Ma anche qui, qualsiasi tentativo di semplificazione è un oltraggio alla complessità e alla bellezza di questo romanzo, che di qualsiasi tema è capace di coglierne gli aspetti più profondi, dal valore universale... Come relegare il seguente passaggio a un problema solo orientale: “di conseguenza i nostri volti erano diventati vacui; non era più possibile leggervi nulla; sopracciglia, occhi, nasi, sguardi ed espressioni erano vuoti, i volti privi di significato”?
La difficoltà di essere se stessi è connaturata all’individuo in quanto tale, che da sempre sogna di essere “qualcun altro” e in relazione a questo differente “io” (plasmato a partire da se stesso, dai suoi ricordi, dai personaggi della sua memoria) costruisce la propria identità, fino a fondersi con esso.
Alla fine di questo straordinario viaggio – all’interno di un’Istanbul misteriosa e ammaliante, attraverso storie e metastorie, sogni e incubi, ricordi e profezie – anzichè essere gettati nello sconforto di un’identità irrimediabilmente persa, sembra invece che, paradossalmente, proprio rivestendo i panni di qualcun altro (Galip quelli di Celâl, il popolo turco quelli del suo “rivale” occidentale, ogni singolo individuo quelli di coloro che lo circondano...) alla fine si è in grado di trovare, e quindi di essere autenticamente, se stessi.
Non c’è un finale per questa storia, così come non c’era un vero protagonista (Galip? Celâl? Istanbul?)... quello che resta è un viaggio incredibile e indimenticabile, e la sensazione di aver vissuto qualcosa di unico, magicamente raccontato.
«Ho trascorso la mia vita ad Istanbul, sulla riva europea, nelle case che si affacciavano sull'altra riva, l'Asia. Stare vicino all'acqua, guardando la riva di fronte, l'altro continente, mi ricordava sempre il mio posto nel mondo, ed era un bene. E poi, un giorno, è stato costruito un ponte che collegava le due rive del Bosforo. Quando sono salito sul ponte e ho guardato il panorama, ho capito che era ancora meglio, ancora più bello di vedere le due rive assieme. Ho capito che il meglio era essere un ponte fra due rive. Rivolgersi alle due rive senza appartenere.»
(O.Pamuk, 2003)