È il secondo libro che leggo di Steinbeck e non mi ha deluso. Lo stile che mi aveva conquistato quando ho letto “Furore” l’ho ritrovato in tutto il suo fascino in “Uomini e topi”. Avevo letto alcuni brani di questo libro, ma in italiano, ai tempi del ginnasio, e mi erano piaciuti talmente tanto che mi ero ripromessa di leggerlo tutto.
È una storia che abbraccia un’epoca, quella narrata con maggior respiro in “Furore”, la storia dei braccianti che si spostavano da un luogo all’altro per brevi periodi, per piccoli guadagni, tutti a inseguire lo stesso sogno che non riescono mai a realizzare. Un sogno che prende vita ogni volta nelle loro parole, nelle loro confidenze, nella cantilena che Lennie si fa ripetere continuamente da George, come un bambino che vuole ascoltare sempre la stessa favola, con le stesse parole, ossessivo come sanno essere i bambini, perché di quello è fatto il loro mondo. Ma è un sogno dilatato all’infinito nella mente di questi uomini, bisognosi di qualcosa in cui sperare, bisognosi di vedere una luce alla fine del tunnel. Lennie e George, uniti da un sogno, uniti dalla solitudine, perché è meglio avere qualcuno accanto che incattivirsi da soli. È solo dovere? Solo senso di responsabilità? Dipendenza? Affetto? Forse tutto questo insieme. Ma alla fin fine non cambia il risultato: ciascuno dei due ha bisogno dell’altro. E il gesto finale di George viene interpretato come un gesto di generosità, un gesto estremo per proteggere Lennie da torture più grandi, da una vendetta più malvagia, in un mondo in cui è giustizia anche imbracciare un fucile e giustiziare un uomo senza processo, senza attenuanti, senza quella che chiamiamo oggi incapacità di intendere e di volere. E il lettore moderno lo comprende, anche se nella cultura moderna siamo abituati all’omicidio-suicidio, per proteggere chi si ama ma senza poter più vivere senza di lui. Ma anche con una diversa tradizione contemporanea il lettore comprende che per George non è una liberazione, bensì una rinuncia per amore dell’amico. Un amico finito nei guai per colpa di una donna troppo disinibita. Tutte le donne del libro comunicano una pessima immagine di sé. La moglie di Curley è una donnetta manipolatrice truccata come una cortigiana che gironzola intorno agli uomini per lusingare se stessa con i loro sguardi. Ma sono sguardi di disprezzo. Di uomini abituati a donne che stanno dentro casa a rigovernare. O a donne che si prostituiscono di mestiere. Comunque oggetti e accessorii. Perché la donna non serve più di tanto. Il loro idolo è il sogno di una terra tutta loro, che li liberi dalla schiavitù del mercenario. E lo esprimono nel loro linguaggio di analfabeti, in cui la costruzione della frase è sempre sbagliata, ma ogni volta sbagliata in un modo diverso, ogni volta un verbo può essere coniugato in un modo diverso. Steinbeck ha avuto la capacità strepitosa di riprodurre il linguaggio di questi uomini realmente esistiti nella storia americana, ne ha riprodotto la pronuncia ottenendo l’effetto di dar vita a quel suono alla sola lettura.
Un piccolo capolavoro, che in “Furore” si è trasformato in epopea.