Kang, Han - Convalescenza

qweedy

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"Una donna cerca risposta agli interrogativi che la morte della sorella ha lasciato insoluti: perché, senza un motivo apparente, aveva cominciato a detestarla? Perché, pur essendo in tutto più dotata, si sentiva inferiore a lei? Perché sembrava tenere la vita a distanza, «come se scansasse del cibo dall'odore nauseante»? E nel secondo pannello di questo dittico di racconti un'altra donna, per sfuggire a un'esistenza che la intossica, a poco a poco si trasforma in una pianta: la sua inquietudine si placa, il suo corpo sofferente fiorisce e dà frutti – prima di appassire, forse per sempre. Ci sembra di conoscerle, queste figure femminili che richiamano i motivi e l'aura della «Vegetariana», ma non cessano di stupirci per la loro straniata singolarità."

Convalescenza raccoglie due racconti, il primo che dà il titolo al dittico, il secondo “Il frutto della mia donna” è apparso per la prima volta nel 1997. Sono due racconti brevi, entrambi scritti prima de La vegetariana vincitore del Man Booker Prize, che affrontano gli stessi temi. Due donne che parlano pochissimo, l’abissale disorientamento che si prova a non essere capite e la sensazione che non valga la pena sforzarsi per farsi comprendere. Viene affrontata così, con questo senso di stanchezza e ineluttabilità, la solitudine, l'incomunicabilità, il disagio psicologico, la libertà. Trionfa l’immagine della donna-albero, figura manifesta di una femminilità radicata e ramificata; che appartiene alla terra e al cielo; che è femmina e madre, feconda e fruttuosa. Le donne si trasformano in piante per sfuggire alla sofferenza, i loro corpi si accartocciano come foglie.

“Stai guardando la tua bicicletta perché ti ha resa felice – perché probabilmente non c’è niente che tu abbia davvero amato, a parte andare in bici. Solo allora avevi l’impressione che la tua vita non fosse un irrevocabile fallimento, e riuscivi serenamente a liberarti della sensazione di essere forse esclusa da tutta la sfolgorante felicità di questo mondo”.

Non sai che ti girerai senza posa da una parte e dall’altra, lottando con quelle domande insistenti e brucianti: che cosa avresti dovuto fare quando decidesti di allontanarti da lei per sempre, quando non riuscisti a leggere quello che si celava dietro i suoi occhi inespressivi? Quale, quale altra strada avresti dovuto imboccare per non stupirti nel renderti conto che anche tu sei una persona spaventosamente fredda?

Da che cosa cercavo di scappare, che cosa mi affliggeva al punto da farmi desiderare di fuggire all’altro capo del mondo? E che cosa mi tratteneva, impastoiandomi, paralizzandomi? Quali ceppi mi opprimevano, impedendo il salto che avrebbe rinnovato questo sangue malato?

Mamma, continuo a fare lo stesso sogno. Sogno di diventare alta come un pioppo. Sfondo il soffitto della veranda e anche quello del piano di sopra, del quindicesimo piano, del sedicesimo, crescendo a vista d’occhio e trapassando il cemento armato finché non supero il tetto in cima a tutto. Fiori simili a larve bianche sbocciano dalle mie estremità più alte. La mia trachea, così tesa che sembra debba scoppiare, assorbe acqua limpida; il mio petto svetta fino in cielo e mi sforzo di protendere ogni ramo. È così che scappo da questo appartamento. Ogni notte, mamma, ogni notte lo stesso sogno.
 
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