Fortemente attratta dal titolo e dalla quarta di copertina – che mi richiamavano alla mente precedenti romanzi basati sul mito americano della “famiglia perfetta”, come Correzioni, Revolutionary road e, soprattutto, Pastorale americana – appena iniziato il libro non ho potuto fare a meno di paragonarlo a quest’ultimo.
L’incipit è molto potente: “Eravamo i Mulvaney*, vi ricordate di noi?” e, qualche riga dopo, entriamo subito nel cuore del dramma: “Per parecchio tempo ci avete invidiato, poi ci avete compianto. Per parecchio tempo ci avete ammirato, poi avete pensato Bene! È quello che si meritano."
Un inizio promettente, ma il confronto (ingiusto) con Pastorale americana mi ha assalito. Lo Svedese e la sua famiglia incarnavano il modello di perfezione americana: bellezza, forma fisica, indiscusso successo. Perché invece i Mulvaney pretendono di esserlo? Cos’è che la gente invidia loro? Cos’hanno di così speciale?
A parte una riuscita e cinematografica descrizione della loro High Point Farm (la ruralità, la vita a stretto contatto con la natura sono ciò che effettivamente li contraddistigue dagli altri), non ho trovato una vera giustificazione dell’assunzione di questo ruolo.
Anzi, andando avanti nella lettura ci accorgiamo che non è tutto rose e fiori, non lo è mai stato, come è giusto che non sia, perché la famiglia perfetta non esiste ed esiste semmai lo sforzo che facciamo per raggiungere un certo ideale.
E in effetti andando avanti ho capito proprio questo: che non è tanto la gente ad invidiare i Mulvanay, quanto loro stessi ad essersi autoconvinti di essere perfetti. Corinne, la madre, è un personaggio incredibile (ne bene e nel male): come (quasi) tutte le mogli e madri prima di diventarlo è convinta che riuscirà a costruire il proprio nido d’amore e che tutto andrà bene, perchè è solo l’amore che conta. Se vuoi, puoi; se ami, non potrai fallire (fra l’altro Corinne è molto credente, al limite del bigottismo).
La nascita dei figli sembra confermare questo autoconvincimento: famiglia perfetti, figli perfetti. L'utopia si nutre di tutti i cliché dell'armonia raggiunta: quattro/cinque amorevoli soprannomi per ciascun membro della famiglia, foto e articoli di giornale appuntati nella bacheca della cucina, ai quali corrispondono una carrellata di ricordi e di successi, una sfilza di animali da fattoria e domestici (ognuno ha il suo preferito), un paesaggio incontaminato lontano dal frastuono del caos cittadino... Tutto è talmente da cartolina, che persino Judd, il piccolo di casa e narratore in prima persona, sembra talvolta sentirsi fuori luogo: fa davvero parte anche lui di questo clan? "A me preoccupava essere arrivato tanto in ritardo; c'erano già tutti! Una famiglia Mulvaney completa senza Judd. (...) Ho sempre avuto quella sensazione. Per quanto mi sforzassi non potevo sperare di arrivare a condividere i loro bei giorni, i segreti, le battute. I ricordi.”
Ma poi accade qualcosa che distrugge il sogno. Corinne e il resto della famiglia devono capire (e nonostante tutto non lo capiscono) che non è vero che amare significa non fallire, non è vero che basta desiderare qualcosa (e sforzarsi per raggiungerla) per ottenerla. L’esistenza ha una componente irrazionale che può distruggere un’intera vita, o più vite.
Quello che accade alla figlia Marianne è sicuramente una cosa molto grave e molto brutta, ma oserei dire che non tanto è l’episodio in sé la causa di tutto ciò che accade dopo, quanto la reazione della famiglia rispetto a questo episodio. È così difficile accettare che qualcosa di esterno "contamini" l'armonia familiare? Magari, facendo finta di nulla, è come se nulla fosse successo?
Al contrario è proprio così che l’armonia si rompe, la famiglia si sgretola. Ma era una vera famiglia? Impossibile non chiederselo, soprattutto di fronte al comportamento ingiustificabile del padre. Ma anche quello di Corinne, che di fatto lo difende e lo giustifica. Una famiglia “nella quale tutto quel che accadeva era prezioso e tutto quello che era prezioso era immagazzinato nel ricordo e tutti avevano una storia” avrebbe dovuto almeno di affrontare il "male" restando unita, e invece così non è stato.
Questo libro è molto doloroso e proprio per questo mi è piaciuto (nonostante non abbia condiviso tutte le scelte narrative e stilistiche). Mentre, paradossalmente, mi è piaciuto meno il finale, che ho trovato un po’ forzato, artefatto, un voler chiudere il cerchio a tutti i costi.
Il senso, però, di questo finale e di questo libro penso di averlo trovato e ha a che fare con un motivo che ricorre spesso da metà libro in poi: l’ossessione di Patrick, il secondogenito, nei confronti della biologia e in particolare della teoria dell’evoluzione darwiniana. E che c’entra? – direte voi. Infatti anch’io mi sono chiesta “che c’entra?”, visto che l'argomento ritorna più e più volte, persino nelle ultimissime pagine, tanto da convincermi che un significato doveva esserci.
E io penso che sia questo: l’evoluzione è qualcosa che prescinde dalle nostre intenzioni, non esiste un obiettivo predeterminato e nemmeno una provvidenza, ma ciò non significa che non conduca a nulla. Una serie di imprevisti, possiamo chiamarli persino "errori" della natura, che noi riteniamo perfetta, fanno sì che le specie si evolvano e si adattino talmente bene, da averci fatto credere, per secoli, che dietro ci fosse uno "sforzo" biologico verso una qualche forma di miglioramento.
Beh, magari è un’interpretazione un po’ azzardata, ma io credo che lo stesso principio si possa applicare ai Mulvaney e alle famiglie in generale. Corinne credeva di poter controllare tutto con la volontà, che qualsiasi cosa avesse desiderato, anche dopo l’incidente di Marianne, sarebbe avvenuto, magari col tempo. La realtà ha dimostrato il contrario (anche se manca una presa di coscienza dei protagonisti in questo senso e secondo me è uno dei punti deboli del romanzo), ma alla fine ciò che prevale è... la vita stessa. Non quella che avevamo idealizzato, non attraverso i percorsi che avremmo desiderato, ma è comunque la vita, errore dopo l’altro, ad individuare la sua strada e a dare un senso a ciò che si è vissuto.
Una famiglia americana non è un capolavoro (almeno non per me), ma ha aggiunto un tassello al mosaico della “perfezione umana e il suo infrangersi con la realtà” che da sempre mi affascina e mi tormenta.
L’incipit è molto potente: “Eravamo i Mulvaney*, vi ricordate di noi?” e, qualche riga dopo, entriamo subito nel cuore del dramma: “Per parecchio tempo ci avete invidiato, poi ci avete compianto. Per parecchio tempo ci avete ammirato, poi avete pensato Bene! È quello che si meritano."
Un inizio promettente, ma il confronto (ingiusto) con Pastorale americana mi ha assalito. Lo Svedese e la sua famiglia incarnavano il modello di perfezione americana: bellezza, forma fisica, indiscusso successo. Perché invece i Mulvaney pretendono di esserlo? Cos’è che la gente invidia loro? Cos’hanno di così speciale?
A parte una riuscita e cinematografica descrizione della loro High Point Farm (la ruralità, la vita a stretto contatto con la natura sono ciò che effettivamente li contraddistigue dagli altri), non ho trovato una vera giustificazione dell’assunzione di questo ruolo.
Anzi, andando avanti nella lettura ci accorgiamo che non è tutto rose e fiori, non lo è mai stato, come è giusto che non sia, perché la famiglia perfetta non esiste ed esiste semmai lo sforzo che facciamo per raggiungere un certo ideale.
E in effetti andando avanti ho capito proprio questo: che non è tanto la gente ad invidiare i Mulvanay, quanto loro stessi ad essersi autoconvinti di essere perfetti. Corinne, la madre, è un personaggio incredibile (ne bene e nel male): come (quasi) tutte le mogli e madri prima di diventarlo è convinta che riuscirà a costruire il proprio nido d’amore e che tutto andrà bene, perchè è solo l’amore che conta. Se vuoi, puoi; se ami, non potrai fallire (fra l’altro Corinne è molto credente, al limite del bigottismo).
La nascita dei figli sembra confermare questo autoconvincimento: famiglia perfetti, figli perfetti. L'utopia si nutre di tutti i cliché dell'armonia raggiunta: quattro/cinque amorevoli soprannomi per ciascun membro della famiglia, foto e articoli di giornale appuntati nella bacheca della cucina, ai quali corrispondono una carrellata di ricordi e di successi, una sfilza di animali da fattoria e domestici (ognuno ha il suo preferito), un paesaggio incontaminato lontano dal frastuono del caos cittadino... Tutto è talmente da cartolina, che persino Judd, il piccolo di casa e narratore in prima persona, sembra talvolta sentirsi fuori luogo: fa davvero parte anche lui di questo clan? "A me preoccupava essere arrivato tanto in ritardo; c'erano già tutti! Una famiglia Mulvaney completa senza Judd. (...) Ho sempre avuto quella sensazione. Per quanto mi sforzassi non potevo sperare di arrivare a condividere i loro bei giorni, i segreti, le battute. I ricordi.”
Ma poi accade qualcosa che distrugge il sogno. Corinne e il resto della famiglia devono capire (e nonostante tutto non lo capiscono) che non è vero che amare significa non fallire, non è vero che basta desiderare qualcosa (e sforzarsi per raggiungerla) per ottenerla. L’esistenza ha una componente irrazionale che può distruggere un’intera vita, o più vite.
Quello che accade alla figlia Marianne è sicuramente una cosa molto grave e molto brutta, ma oserei dire che non tanto è l’episodio in sé la causa di tutto ciò che accade dopo, quanto la reazione della famiglia rispetto a questo episodio. È così difficile accettare che qualcosa di esterno "contamini" l'armonia familiare? Magari, facendo finta di nulla, è come se nulla fosse successo?
Al contrario è proprio così che l’armonia si rompe, la famiglia si sgretola. Ma era una vera famiglia? Impossibile non chiederselo, soprattutto di fronte al comportamento ingiustificabile del padre. Ma anche quello di Corinne, che di fatto lo difende e lo giustifica. Una famiglia “nella quale tutto quel che accadeva era prezioso e tutto quello che era prezioso era immagazzinato nel ricordo e tutti avevano una storia” avrebbe dovuto almeno di affrontare il "male" restando unita, e invece così non è stato.
Questo libro è molto doloroso e proprio per questo mi è piaciuto (nonostante non abbia condiviso tutte le scelte narrative e stilistiche). Mentre, paradossalmente, mi è piaciuto meno il finale, che ho trovato un po’ forzato, artefatto, un voler chiudere il cerchio a tutti i costi.
Il senso, però, di questo finale e di questo libro penso di averlo trovato e ha a che fare con un motivo che ricorre spesso da metà libro in poi: l’ossessione di Patrick, il secondogenito, nei confronti della biologia e in particolare della teoria dell’evoluzione darwiniana. E che c’entra? – direte voi. Infatti anch’io mi sono chiesta “che c’entra?”, visto che l'argomento ritorna più e più volte, persino nelle ultimissime pagine, tanto da convincermi che un significato doveva esserci.
E io penso che sia questo: l’evoluzione è qualcosa che prescinde dalle nostre intenzioni, non esiste un obiettivo predeterminato e nemmeno una provvidenza, ma ciò non significa che non conduca a nulla. Una serie di imprevisti, possiamo chiamarli persino "errori" della natura, che noi riteniamo perfetta, fanno sì che le specie si evolvano e si adattino talmente bene, da averci fatto credere, per secoli, che dietro ci fosse uno "sforzo" biologico verso una qualche forma di miglioramento.
Beh, magari è un’interpretazione un po’ azzardata, ma io credo che lo stesso principio si possa applicare ai Mulvaney e alle famiglie in generale. Corinne credeva di poter controllare tutto con la volontà, che qualsiasi cosa avesse desiderato, anche dopo l’incidente di Marianne, sarebbe avvenuto, magari col tempo. La realtà ha dimostrato il contrario (anche se manca una presa di coscienza dei protagonisti in questo senso e secondo me è uno dei punti deboli del romanzo), ma alla fine ciò che prevale è... la vita stessa. Non quella che avevamo idealizzato, non attraverso i percorsi che avremmo desiderato, ma è comunque la vita, errore dopo l’altro, ad individuare la sua strada e a dare un senso a ciò che si è vissuto.
Una famiglia americana non è un capolavoro (almeno non per me), ma ha aggiunto un tassello al mosaico della “perfezione umana e il suo infrangersi con la realtà” che da sempre mi affascina e mi tormenta.
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