Oleandro bianco è la storia di formazione di una ragazza e la sua emancipazione dal rapporto tossico con la madre. Una madre egocentrica, che finisce in carcere per aver ucciso un suo amante e abbandona la figlia Astrid in balia di una serie di improbabili famiglie affidatarie, costringendola ad una vita di rinunce e solitudine. Senza più un riferimento certo, Astrid è costretta a reiventarsi continuamente, a distruggersi volta volta in pezzetti che cerca di rimettere insieme alla meglio ad ogni cambio di famiglia, nel desiderio di essere accettata e amata, nella paura di essere rifiutata, sotto l’ombra lunga della mamma che anche dal carcere continua ad esercitare la sua influenza sulla figlia, non mancando di criticare le sue scelte, i suoi espedienti di sopravvivenza.
Il riscatto di Astrid parzialmente riesce, alla fine il libro rimanda l’immagine di una giovane donna che si è ricomposta in qualche modo, trovando un suo equilibrio, ma rimangono evidenti le asperità delle ferite e la disarmonia di un’adolescenza vissuta sballottata non solo da un luogo all’altro, ma anche da una relazione tossica all’altra.
Il meccanismo di crescita ed emancipazione della protagonista è interessante, lo stile forse un po’ troppo pretenzioso, pieno di metafore e paragoni non sempre necessari e azzeccati. Inoltre, le vicissitudini raccontate mi sono sembrate molto forzate e al servizio dell’idea di fondo in modo pretestuoso.
Non so come funzionasse il sistema assistenziale americano negli anni ’70-’80, ma che una ragazzina dai tredici ai diciotto anni abbia potuto cambiare 6 famiglie affidatarie, una più assurda dell’altra, famiglie a cui i figli andrebbero tolti invece che affidati, con un passaggio anche in una struttura che sembra più un carcere che un luogo di accoglienza per minori, mi sembra abbastanza inverosimile.
Non metto in dubbio che queste situazioni siano reali e plausibili, ma che capitino tutte ad una stessa ragazzina in cerca di affido mi è sembrata una forzatura letteraria.
Insomma, alla fine la storia e lo stile narrativo mi hanno un po’ annoiato e non mi hanno convinto del tutto.
Il riscatto di Astrid parzialmente riesce, alla fine il libro rimanda l’immagine di una giovane donna che si è ricomposta in qualche modo, trovando un suo equilibrio, ma rimangono evidenti le asperità delle ferite e la disarmonia di un’adolescenza vissuta sballottata non solo da un luogo all’altro, ma anche da una relazione tossica all’altra.
Il meccanismo di crescita ed emancipazione della protagonista è interessante, lo stile forse un po’ troppo pretenzioso, pieno di metafore e paragoni non sempre necessari e azzeccati. Inoltre, le vicissitudini raccontate mi sono sembrate molto forzate e al servizio dell’idea di fondo in modo pretestuoso.
Non so come funzionasse il sistema assistenziale americano negli anni ’70-’80, ma che una ragazzina dai tredici ai diciotto anni abbia potuto cambiare 6 famiglie affidatarie, una più assurda dell’altra, famiglie a cui i figli andrebbero tolti invece che affidati, con un passaggio anche in una struttura che sembra più un carcere che un luogo di accoglienza per minori, mi sembra abbastanza inverosimile.
Non metto in dubbio che queste situazioni siano reali e plausibili, ma che capitino tutte ad una stessa ragazzina in cerca di affido mi è sembrata una forzatura letteraria.
Insomma, alla fine la storia e lo stile narrativo mi hanno un po’ annoiato e non mi hanno convinto del tutto.
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