Sapienza, Goliarda - Elogio del bar

Ondine

Logopedista nei sogni
Il bar fu sempre un luogo mitico per Goliarda, nel senso che fu costretta a mitizzarlo a lungo proprio per la sua mancanza. Nel quartiere di Roma dove ha vissuto di più, i compassati Parioli, i bar sono quasi del tutto assenti. Fra le vecchie famiglie borghesi, anche per età, che lo abitano, le ambasciate, gli studi legali e le residenze di società internazionali l’uso del bar non può certo dirsi diffuso. Né l’elegante quartiere dispone di caffè, come si sarebbe indotti a pensare (non dispone neanche di librerie, se è per questo), se escludiamo l’Hungaria, ormai però da tempo trasformato in snack bar per gli uffici intorno, il Cigno, che non dispone di alcun tavolo interno, e l’Euclide dove, anche se di malavoglia, Goliarda era spesso costretta ad approdare. Ma quella passerella pariolina che dava il massimo di sé la domenica, all’uscita dalla messa di mezzogiorno nella faraonica chiesa del Cuore Immacolato di Maria, quando le buone famiglie acquistavano frettolosamente i dolci per il pranzo della festa, per Goliarda non poteva dirsi un bar né un caffè – almeno non come l’intendeva lei – occasione d’indagine sociologica sì, ma non grande luogo di comunicazione e di scambio quale lei lo concepiva. Non era tipo da stare tutto il tempo a osservare passivamente. Negli ultimi anni s’era ridotta, quand’era a Roma, a frequentare un modesto bar sul piazzale del Parco della Rimembranza, rumorosissimo, l’unico un po’ popolare vicino casa, che apriva già alle sei. Spesso era la prima a entrare. Fra pulivetri, piccoli impiegati, operai, spazzini in pausa più assonnati di lei, seduta a un tavolino circondato da slot machine e videogiochi, continuava a bere caffè e a leggere giornali. D’altronde Goliarda non amava i cosiddetti caffè eleganti, peraltro piuttosto rari a Roma, soprattutto dopo la chiusura dei vari Latour, Fassi, Moriondo e Gariglio, Aragno. Aveva frequentato nei bollenti anni Cinquanta i caffè cinematografici di via Veneto, principalmente lo Strega, dove si soffermava in lunghe conversazioni con Cardarelli ed Ercolino Maselli che abitava – si può dire – dietro l’angolo, così come Rosati e Canova in piazza del Popolo, ma tutti questi per lei non potevano dirsi propriamente bar. In realtà amava qualcosa di molto minore, qualcosa che le ricordava i thermopolia della sua Catania, due, tre tavolini al massimo, magari con l’aggiunta di un bancone stile american bar o pub con strapuntini dove appollaiarsi di fronte ai baristi. Era questa una categoria che letteralmente ammirava, dai più stilé ai più rozzi, che spesso potevano essere anche i padroni stessi, e da loro amava informarsi su mille cose creando una confidenza che solo lei sapeva gestire, e che avrebbe fatto impressione a un normale borghese. Non amava certo bar che erano del tutto mordi e fuggi, ma neanche troppo silenziosi, e letterari, come certi caffè nordeuropei. Raramente scrisse in un bar, come invece si potrebbe credere. Lo fece soltanto come estrema risorsa nell’ultimo locale in cui riempì le innumerevoli pagine dei taccuini: la Triestina di Gaeta. Ma questa è un’altra storia. Prima c’era stata ‘A Francese a Gaeta vecchia, un bugigattolo fumoso e umido all’estrema punta del promontorio. A Gaeta venne poi, appunto, la Triestina, che era come un’oasi anche notturna. Si potevano comprare le ultime sigarette, bere il bicchiere della staffa e mangiare qualcosa, dai gelati ai dolci, alla tavola calda, tutto preparato ancora artigianalmente dai proprietari che Goliarda conosceva bene, e le facevano anche credito. Alla Triestina poi approdavano gli ultimi disperati nottambuli, quelli che comunque la natura fa esistere anche dove la notte serve solo per dormire. Goliarda faceva suo il pensiero attribuito a Rubinstein: preferisco passare la notte con un assassino piuttosto che con un noioso. D’altra parte era lei che cominciava sorridendo a tutti come soltanto lei poteva fare, ed era un modo esplosivo; impossibile resistere alla simpatia che esprimeva. In estate, dal bar, dopo aver fatto la spesa nel vicolo, comprato il pesce e riempito qualche taccuino, poteva raggiungere il mare dove a conversare non pensava più.
Ho conosciuto questa scrittrice attraverso Il filo di mezzogiorno e ne ero rimasta attratta per la sua scrittura senza filtri trattandosi della sua esperienza di psicanalisi. Anche in questo brevissimo romanzo ho potuto respirare, seppur in maniera diversa, un'esperienza psicanalitica dell'autrice attraverso la dimensione quotidiana del vivere il bar come un luogo simbolico. Il bar, in particolare il bar Triestina di Gaeta dove visse gli ultimi suoi anni, era diventato la sua casa e il voler preferire il contatto con le persone più emarginate e sofferenti credo sia stato lo specchio di una sua ricerca di identità. Goliarda lottava contro la depressione e fuggiva dalle maschere e dai ruoli sociali, si doleva di avere un viso tragico, sorrideva alle persone che incontrava nel bar presumibilmente perché voleva essere accettata e allora cominciava con loro estenuanti conversazioni arrivando ad avvicinare i tavoli o a trasferirsi da un tavolo all'altro. La prima parte del libro è dedicata all'incontro al bar della stazione con un assassino con cui farà il viaggio in treno fino a Roma. La seconda parte alle riflessioni di Goliarda sulle sue giornate passate al bar Triestina, al mercato del pesce, a fare le pulizie di casa e infine al mare a fare lunghe passeggiate combattendo la paura che l'angoscia torni. Ho trovato diversi punti di comunanza in questa sorta di diario personale dell'autrice e anche se questo racconto è stato brevissimo l'ho vissuto intensamente.
 
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estersable88

dreamer member
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Ringrazio Ondine per avermi fatto scoprire questa breve opera di Goliarda Sapienza di cui non avevo mai sentito parlare.
Mi è piaciuto molto questo racconto in forma di omaggio al bar, come luogo, abitudine e vero e proprio culto. È qualcosa che condivido profondamente e che mi accomuna all'autrice, non a caso i bar sono tra i miei luoghi d'elezione. Mi è piaciuto, dicevo, ma l'ho trovato davvero troppo breve: è come se fosse un accenno, una strizzatina d'occhio, un inizio di qualcosa che sarebbe potuto continuare a lungo ma che è stato interrotto come da un imprevisto e che, però, è ancora nell'aria. Non so, c'è qualcosa di etereo nel modo in cui è scritto e concluso questo racconto, quasi che sia sospeso un attimo prima di prendere il largo. Fatto sta che ne avrei voluto ancora e ancora.
 
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