Ero convinta di aver già scritto il commento di questo libro, il terzo della tetralogia di Mann dedicata a Giuseppe d’Egitto. Per non ripetermi eccessivamente nell’affermare che siamo di fronte a un’opera eccezionale, di un livello non solo alto, ma direi “altro” rispetto a tanta letteratura pure di valore, inizio con il dichiararmi d’accordo con l’autore stesso che definisce questo terzo capitolo il più riuscito. Beh, non ho ancora letto il quarto quindi non posso esserne certa, ma di sicuro fino a questo momento Giuseppe in Egitto è il libro che mi ha entusiasmato di più.
Il giovane ebreo, dopo essere stato ceduto come schiavo a dei mercanti ismaeliti, è condotto da essi – o, come riconosce lui stesso, da Dio per mezzo di essi – in Egitto e qui venduto a un ricco cortigiano del Faraone di nome Potifar.
Molti dei temi che attraversano il romanzo sono stati già introdotti in quelli precedenti: il rapporto fra la predestinazione divina e il ruolo attivo dell’uomo; il concetto di passato e di “modello”, inteso come orma; il crogiuolo di divinità, all’interno del quale il Dio degli ebrei appare uno fra i tanti, unico solo per gli Ebrei stessi. Altri temi sono invece specifici di questo libro, come il contrasto fra le divinità “morte” degli Egizi e il Dio vivente della stirpe di Giuseppe, e la passione che il giovane schiavo, divenuto nel frattempo maggiordomo e amministratore unico dei beni del padrone, suscita nell’avvenente moglie di Potifar, che fino a quel momento non aveva mai goduto delle gioie dell’amore carnale, essendo stata sacrificata la virilità del marito sull’altare del dio Amun.
A proposito di religione e di divinità, è molto interessante notare come la situazione religiosa interna all’Egitto fosse tutt’altro che “pacifica”: due grandi dei si contendevano il culto del popolo, uno antico, più tollerante e favorevole agli stranieri e uno più recente, geloso e vendicativo; l’aspetto religioso e quello politico-economico sono come sempre fortemente intrecciati. D’altra parte l’approccio di Mann non è teorico (sebbene ci siano bellissimi passaggi di pura filosofia), ma diventa materia viva attraverso il racconto di riti, solenni feste che interessano tutto il popolo, intrighi politici. Mai come in questo terzo capitolo, la trama è avvincente e le descrizioni coinvolgenti; per assurdo non solo ci sentiamo parte della storia, ma restiamo col filo sospeso in attesa di ciò che accadrà dopo. E com’è possibile questo, se la vicenda la conosciamo già ed è perciò negato qualsiasi effetto sorpresa? Il motivo ce lo spiega il narratore stesso, che volentieri si sofferma ad analizzare questo aspetto: sebbene la storia abbia già raccontato se stessa nel momento in cui accadde per la prima volta, la presente narrazione l’ha inserita nuovamente nel “meccanismo del tempo con le leggi e il succedersi degli eventi”, di conseguenza ciò che non è ancora accaduto (ovvero narrato) “ci attrae in maniera potente e inquietante”. “Così avviene quando il duplice senso di “un tempo” esercita il suo fascino, quando il futuro è passato, quando tutto è già stato recitato molto tempo fa e ora dovrà di nuovo andare in scena in un esatto presente!”.
Questo senso di tormentosa attesa si manifesta soprattutto nel momento in cui Mut-em-enet, moglie platonica di Potifar, si innamora di Giuseppe. L’innamoramento è raccontato in modo superbo, proprio perchè, riflette sempre il narratore, il romanzo è altro rispetto alla storia vera ma anche rispetto alla tradizione biblica, e può permettersi di scandagliare aspetti che i testi sacri liquidano con un secco: “gli mise gli occhi addosso e gli disse: «Unisciti a me!»”( Gn 39,7). L’evolversi di questa passione, dapprima temuta e ostacolata, poi accolta come una liberazione e una condanna insieme (come qualsiasi innamoramento) e infine, di fronte al rifiuto, divenuta vera “pazzia d’amore”, regala delle pagine meravigliose, in cui ognuno di noi si può ritrovare, se ha mai amato disperatamente qualcuno.
D’altra parte, poichè rivivere gli eventi nella narrazione significa dar loro una seconda vita, non è difficile immedesimarsi in Mut-em-enet e in Giuseppe e chiedersi: come andrà a finire? Cederà il giovane o rimarrà fedele al suo Dio? Perchè, dal suo punto di vista, cedere alle avances della sua padrona significa innanzitutto tradire la sua stirpe e la sua fede. Ciononostante Giuseppe non fa nulla per impedire che questa passione superi il punto di non ritorno. “Ma quanto volentieri l’uomo si tiene aperta la possibilità di scegliere il male, con quanto piacere assapora questa sua libertà e scherza con il fuoco, sia per fiducioso coraggio e presunzione di poter prendere il toro per le corna, sia per leggerezza, sia per segreta voluttà!” E solo quando la donna, follemente innamorata, cade in un baratro di perdizione, Giuseppe si rende finalmente conto di essere stato complice e colpevole di questa sofferenza; così come quando, intrappolato nel fondo del pozzo dopo che i suoi fratelli ve lo avevano gettato, aveva capito di essere lui il primo responsabile di un così grande misfatto, anche in questa occasione Giuseppe dovrà guardare dentro se stesso e riconoscere la propria colpa, per uscirne poi più forte e più puro.
Appuntamento al quarto e ultimo capitolo!
Il giovane ebreo, dopo essere stato ceduto come schiavo a dei mercanti ismaeliti, è condotto da essi – o, come riconosce lui stesso, da Dio per mezzo di essi – in Egitto e qui venduto a un ricco cortigiano del Faraone di nome Potifar.
Molti dei temi che attraversano il romanzo sono stati già introdotti in quelli precedenti: il rapporto fra la predestinazione divina e il ruolo attivo dell’uomo; il concetto di passato e di “modello”, inteso come orma; il crogiuolo di divinità, all’interno del quale il Dio degli ebrei appare uno fra i tanti, unico solo per gli Ebrei stessi. Altri temi sono invece specifici di questo libro, come il contrasto fra le divinità “morte” degli Egizi e il Dio vivente della stirpe di Giuseppe, e la passione che il giovane schiavo, divenuto nel frattempo maggiordomo e amministratore unico dei beni del padrone, suscita nell’avvenente moglie di Potifar, che fino a quel momento non aveva mai goduto delle gioie dell’amore carnale, essendo stata sacrificata la virilità del marito sull’altare del dio Amun.
A proposito di religione e di divinità, è molto interessante notare come la situazione religiosa interna all’Egitto fosse tutt’altro che “pacifica”: due grandi dei si contendevano il culto del popolo, uno antico, più tollerante e favorevole agli stranieri e uno più recente, geloso e vendicativo; l’aspetto religioso e quello politico-economico sono come sempre fortemente intrecciati. D’altra parte l’approccio di Mann non è teorico (sebbene ci siano bellissimi passaggi di pura filosofia), ma diventa materia viva attraverso il racconto di riti, solenni feste che interessano tutto il popolo, intrighi politici. Mai come in questo terzo capitolo, la trama è avvincente e le descrizioni coinvolgenti; per assurdo non solo ci sentiamo parte della storia, ma restiamo col filo sospeso in attesa di ciò che accadrà dopo. E com’è possibile questo, se la vicenda la conosciamo già ed è perciò negato qualsiasi effetto sorpresa? Il motivo ce lo spiega il narratore stesso, che volentieri si sofferma ad analizzare questo aspetto: sebbene la storia abbia già raccontato se stessa nel momento in cui accadde per la prima volta, la presente narrazione l’ha inserita nuovamente nel “meccanismo del tempo con le leggi e il succedersi degli eventi”, di conseguenza ciò che non è ancora accaduto (ovvero narrato) “ci attrae in maniera potente e inquietante”. “Così avviene quando il duplice senso di “un tempo” esercita il suo fascino, quando il futuro è passato, quando tutto è già stato recitato molto tempo fa e ora dovrà di nuovo andare in scena in un esatto presente!”.
Questo senso di tormentosa attesa si manifesta soprattutto nel momento in cui Mut-em-enet, moglie platonica di Potifar, si innamora di Giuseppe. L’innamoramento è raccontato in modo superbo, proprio perchè, riflette sempre il narratore, il romanzo è altro rispetto alla storia vera ma anche rispetto alla tradizione biblica, e può permettersi di scandagliare aspetti che i testi sacri liquidano con un secco: “gli mise gli occhi addosso e gli disse: «Unisciti a me!»”( Gn 39,7). L’evolversi di questa passione, dapprima temuta e ostacolata, poi accolta come una liberazione e una condanna insieme (come qualsiasi innamoramento) e infine, di fronte al rifiuto, divenuta vera “pazzia d’amore”, regala delle pagine meravigliose, in cui ognuno di noi si può ritrovare, se ha mai amato disperatamente qualcuno.
D’altra parte, poichè rivivere gli eventi nella narrazione significa dar loro una seconda vita, non è difficile immedesimarsi in Mut-em-enet e in Giuseppe e chiedersi: come andrà a finire? Cederà il giovane o rimarrà fedele al suo Dio? Perchè, dal suo punto di vista, cedere alle avances della sua padrona significa innanzitutto tradire la sua stirpe e la sua fede. Ciononostante Giuseppe non fa nulla per impedire che questa passione superi il punto di non ritorno. “Ma quanto volentieri l’uomo si tiene aperta la possibilità di scegliere il male, con quanto piacere assapora questa sua libertà e scherza con il fuoco, sia per fiducioso coraggio e presunzione di poter prendere il toro per le corna, sia per leggerezza, sia per segreta voluttà!” E solo quando la donna, follemente innamorata, cade in un baratro di perdizione, Giuseppe si rende finalmente conto di essere stato complice e colpevole di questa sofferenza; così come quando, intrappolato nel fondo del pozzo dopo che i suoi fratelli ve lo avevano gettato, aveva capito di essere lui il primo responsabile di un così grande misfatto, anche in questa occasione Giuseppe dovrà guardare dentro se stesso e riconoscere la propria colpa, per uscirne poi più forte e più puro.
Appuntamento al quarto e ultimo capitolo!