Quando studiai l’opera di Proust, alle scuole superiori, ricordo che quello che mi aveva affascinato più di tutto era la concezione del tempo interiore o soggettivo, tratta dalla lezione del filosofo Bergson. D’altra parte è questo il concetto intorno a cui è costruita l’intera opera, che già dal titolo definisce chiaramente l’oggetto della sua “ricerca”. Dalla scuola sapevo anche che la teorizzazione di questa filosofia era contenuta nell’ultimo tomo, ovvero Il tempo ritrovato; quello che però non potevo immaginare è che quest’ultimo capitolo mi avrebbe conquistato fino a questo punto. In questo cammino lungo sette parti e oltre 4000 pagine, ho vissuto momenti di grandissimo coinvolgimento ed altri... di grande coinvolgimento e basta. Come dire: non c’è stata una sola pagina che non mi sia piaciuta, ma alcuni tomi li ho preferiti ad altri (La parte di Swann, All’ombra delle fanciulle in fiore, I Guermantes) e Il tempo ritrovato li ha superati tutti.
La scoperta da parte del Narratore di un’esistenza fuori dal tempo cronologicamente inteso mi ha regalato la stessa felicità esaltante e fragile che lui stesso mostra di provare; il Marcel narratore è talmente minuzioso e preciso nel descrivere ogni singolo passaggio della sua coscienza, che davvero si ha l’impressione di seguirlo passo passo, di condividere con lui lo svolgersi della sua rivelazione. D’altra parte nessuno più Proust è capace di rendere la natura sensoriale delle emozioni, per cui quella che potrebbe essere, ed è, una teorizzazione filosofica parecchio complessa, di fatto si trasforma in un’esperienza quasi fisica, impossibile da descrivere.
“Ma basta che un rumore, un odore, già sentito o respirato un’altra volta, lo siano di nuovo, a un tempo nel presente e nel passato, reali senza essere attuali, ideali senza essere astratti, ed ecco che l’essenza permanente e abitualmente nascosa delle cose è liberata (...). Un instante affrancato dall’ordine del tempo ha ricreato in noi, per sentirlo, l’uomo affrancato dall’ordine del tempo.” Nella natura extratemporale delle cose, resa possibile attraverso la rievocazione spontanea, risiede quindi la vera felicità, che è allo stesso tempo eterna ed effimera: eterna, perchè qualcosa che non è soggetto al tempo non può morire, effimera, perchè non può essere cristallizzata. Se il piacere di cui parla Proust non nasce dal godimento immediato ma solo dalla sua resurrezione nel ricordo, tentare di fissarlo significa distruggerlo. Non è l’intelligenza che percepisce l’estasi, è l’impressione. Siamo tornati al sapore delle madeleines e il bacio della buonanotte da cui tutto è cominciato.
Che fare allora? “Il solo modo di goderne di più era tentare di conoscerle più compiutamente là dove esse si trovavano, vale a dire in fondo a me stesso, di renderle più chiare sin nella loro profondità.” Dunque attraverso l’opera d’arte. “In ogni momento l’artista deve ascoltare il proprio istinto, e questo fa sì che l’arte dia quel che c’è di più reale, la più austera scuola della vita, e il vero giudizio finale. Quel libro (il libro della nostra vita interiore), arduo più d’ogni altro da decifare, è anche il solo che la realtà ci abbia dettato, il solo che sia stato “impresso” in noi dalla realtà medesima.”
È proprio questo libro che Proust ci regala: un’opera d’arte che ci permetta “di ritrovare, di riafferrare, di farci conoscere quella realtà lontani dalla quale viviamo, (...) quella realtà che rischieremmo di morire senza aver conosciuta e che è, molto semplicemente, la nostra vita.” Ognuno di noi, quindi, dovrebbe scrivere il libro della propria vita, ma, non essendo tutti scrittori, abbiamo la fortuna di poterci affidare al genio di Proust, che di sicuro è più bravo di noi. Grazie!
“La via vera, la vita finalmente riscoperta e illuminata, la sola vita, dunque, pienamente vissuta, è la letteratura”.