Primo Levi nel capitolo Stereotipi de I sommersi e i salvati (Einaudi) scrive:
Con altrettanta frequenza, e con anche più aspro accento accusatorio, ci viene chiesto: «Perché non vi siete ribellati?» Questa domanda è quantitativamente diversa dalla precedente, ma di natura simile, ed anch'essa si fonda su uno stereotipo. E' opportuno scindere la risposta in due parti.
In primo luogo: non è vero che in nessun Lager abbiano avuto luogo rivolte. Sono state più volte descritte, con abbondanza di particolari, le rivolte di Treblinka, di Sobibór, di Birkenau; altre avvennero in campi minori. Furono imprese di estrema audacia, degne del più profondo rispetto, ma nessuna di esse si concluse con la vittoria, se per vittoria si intende la liberazione del campo. Sarebbe stato insensato puntare su questo scopo: lo strapotere delle truppe di guardia era tale da farlo fallire in pochi minuti, poiché gli insorti erano praticamente disarmati. Il loro scopo effettivo era quello di danneggiare o distruggere gli impianti di morte, e di consentire la fuga del piccolo nucleo degli insorti, il che talvolta (ad esempio a Treblinka, anche se solo in parte) riuscì. Ad una fuga di massa non si pensò mai: sarebbe stata un'impresa folle. Quale senso, quale utilità avrebbe avuto aprire le porte a migliaia di individui appena capaci di trascinarsi, e ad altri che non avrebbero saputo dove, in terra nemica, andare a cercarsi un rifugio?
Insurrezioni comunque avvennero; furono preparate con intelligenza ed incredibile coraggio da minoranze risolute e fisicamente ancora indenni. Costarono un prezzo spaventoso in termini di vite umane e di sofferenze collettive inferte a titolo di rappresaglia, ma valsero e valgono a mostrare che è falso affermare che i prigionieri dei Lager tedeschi non abbiano mai tentato di ribellarsi. Nelle intenzioni degli insorti, avrebbero dovuto condurre ad un altro risultato più concreto: portare a conoscenza del mondo libero il terribile segreto del massacro. In effetti i pochi a cui l'impresa riuscì, e che dopo altre estenuanti peripezie poterono avere accesso agli organi d'informazione, parlarono: ma, come ho accennato nell'introduzione, non furono quasi mai ascoltati né creduti. Le verità scomode hanno un difficile cammino.
In secondo luogo: come il nesso prigionia-fuga, anche il nesso oppressione-ribellione è uno stereotipo. Non intendo dire che non sia valido mai: dico che non è valido sempre. La storia delle ribellioni, cioè delle rivolte dal basso, dei «molti oppressi» contro i «pochi potenti», è vecchia come la storia dell'umanità ed altrettanto varia e tragica. Ci sono state alcune poche ribellioni vittoriose, molte sono state sconfitte, innumerevoli altre sono state soffocate ai loro esordi, tanto precocemente da non aver lasciato traccia nelle cronache. Le variabili in gioco sono molte: la forza numerica, militare ed ideale dei ribelli e rispettivamente dell'autorità sfidata, le rispettive coesioni o spaccature interne, gli aiuti esterni agli uni ed all'altra, l'abilità, il carisma o il demonismo dei capi, la fortuna. Tuttavia, in ogni caso, si osserva che alla testa del movimento non figurano mai gli individui più oppressi: di solito, anzi, le rivoluzioni sono guidate da capi audaci e spregiudicati, che si gettano nella mischia per generosità (o magari per ambizione) pur avendo la possibilità di vivere personalmente una vita sicura e tranquilla, magari addirittura privilegiata. L'immagine tanto spesso replicata nei monumenti, dello schiavo che spezza le sue pesanti catene, è retorica: le sue catene vengono spezzate dai compagni i cui vincoli sono più leggeri e più lenti.
Il fatto non può stupire. Un capo dev'essere efficiente: deve possedere forza morale e fisica, e l'oppressione, se spinta oltre un certo livello molto basso, deteriora l'una e l'altra. Per suscitare la collera e l'indignazione, che sono i motori di tutte le vere rivolte (quelle dal basso, per intenderci: non certo i "putsch" né le «rivolte di palazzo»), occorre sì che l'oppressione esista, ma essa dev'essere di misura modesta, o condotta con scarsa efficienza. L'oppressione nei Lager era di misura estrema, ed era condotta con la nota, ed in altri campi encomiabile, efficienza tedesca. Il prigioniero tipico, quello che costituiva il nerbo del campo, era al limite dell'esaurimento: affamato, indebolito, coperto di piaghe (in specie ai piedi: era un uomo «impedito», nel senso originario del termine. Non è un dettaglio secondario!), e quindi profondamente avvilito. Era un uomo-straccio, e con gli stracci, come già sapeva Marx, le rivoluzioni non si fanno nel mondo reale, bensì solo in quello della retorica letteraria o cinematografica. Tutte le rivoluzioni, quelle che hanno dirottato la storia del mondo e quelle minuscole di cui ci occupiamo qui, sono state guidate da personaggi che conoscevano bene l'oppressione, ma non sulla loro pelle. La rivolta di Birkenau, a cui ho già accennato, fu scatenata dal Kommando Speciale addetto ai crematori: erano uomini disperati ed esasperati, ma ben nutriti, vestiti e calzati. La rivolta del ghetto di Varsavia fu un'impresa degna della più reverente ammirazione, fu la prima «resistenza» europea, e l'unica condotta senza la minima speranza di vittoria o di salute; ma fu opera di una élite politica che, giustamente, si era riserbata alcuni fondamentali privilegi, allo scopo di conservare la propria forza.