"Aveva una specie di nostalgia del padre, come si ha di una patria, ma al tempo stesso sapeva che suo padre non era più la sua patria."
Dopo diverse letture interessanti ma un po’ difficoltose, ho trovato finalmente in questo romanzo il capolavoro che da qualche tempo mi mancava: un libro che trascina, incanta, di una scorrevolezza di cui sentivo il bisogno.
Come molti sapranno, La marcia di Radetzky racconta la fine di un impero, che è anche la fine di una famiglia che a questo impero è profondamente legata.
“I Trotta erano un casato di recente nobiltà. Il loro progenitore aveva ricevuto il titolo dopo la battaglia di Solferino”. Questo è l’incipit del romanzo, che collega direttamente l’ascesa di questa famiglia, di origine slovena, alla riconoscenza di Sua Maestà Francesco Giuseppe I d’Austria, la cui vita è stata eroicamente salvata dal sottotenente Joseph Trotta nel corso di un’azione militare. Il gesto impulsivo e audace, che ha avuto un esito così felice, assurge al valore di “patto di sangue” fra il giovane monarca e i discendenti del suo salvatore. È come se, da questo momento in poi, il legame fra Sua Maestà e i Trotta non fosse un semplice rapporto tra sovrano e sudditi, ma un rapporto viscerale fra padre e figlio
E in effetti il grande tema del romanzo, la sua metafora, è il rapporto padre/figlio: i von Trotta (la particella nobiliare che li distingue dai loro stessi antenati è il simbolo di questa nuova famiglia, sorta dal sangue della ferita dell’eroe di Solferino) riconoscono il proprio ruolo nel mondo in rapporto l’uno con l’altro, di generazione in generazione. Il ritratto del progenitore, grazie al quale la famiglia ha ottenuto la nobiltà, domina “così in alto sulla parete che fronte e capelli si perdevano nelle ombre nerastre del vecchio soffitto a cassettoni”: un monito per i discendenti a meritare i privilegi guadagnati dall’avo.
Ma anche l’imperatore Francesco Giuseppe è padre, padre della patria, eletto da Dio per garantire la pace e la stabilità nel suo impero, e, in modo particolare, padre di questa famiglia a cui lui stesso deve la vita.
Come qualsiasi figlio, tuttavia, a un certo punto della sua vita, per trovare la propria strada deve necessariamente “ribellarsi” contro i genitori e guardare dentro se stesso, così Carl Joseph, nipote dell’eroe di Solferino e figlio del capitano distrettuale Franz, dovrà fare i conti solo le proprie forze e si scoprirà... debole. Al contrario di suo padre, la cui devozione nei confronti dell’imperatore e dell’impero si fonda su una sincera incrollabile fede, Carl Joseph, sottotenente nell’esercito, si troverà a vivere il dramma del suddito che non si riconosce più parte di un regno, del figlio che ha perso il legame con il proprio padre.
Una serie di esperienze, di amori, di amicizie, e soprattutto di perdite gli toglieranno quelle “certezze” sulla stabilità del proprio mondo, che la contemplazione del ritratto di suo nonno e l’ascolto della Marcia di Radetsky gli davano da bambino.
Insieme a lui, tutti gli individui che un tempo si riconoscevano come “popolo”, prendono pian piano coscienza del disgregarsi di un’identità collettiva a favore dei nazionalismi e dei diritti di classe.
In questo romanzo, che io ritengo un capolavoro, Roth coglie l’essenza dell'impero austro-ungarico nel passaggio fra il momento di massimo splendore e massima identificazione fra individuo/sovrano/patria (il sottufficiale che rischia la propria vita per salvare l’imperatore) e la fine di questa dolce illusione. A differenza de La cripta dei cappuccini, non ci viene raccontato il “dopo” del crollo, ma il nostro sguardo contempla il tramonto di un'epoca e si riempie di dolce malinconia.
Libro consigliatissimo.