Selvetella, Yari - Le stanze dell'addio

estersable88

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Io ho ricominciato a lavorare. In altri luoghi scrivo, succhio gamberi, respiro foglie balsamiche, faccio l'amore, ma una parte di me è qui, sempre qui, impigliata a un fil di ferro o ha una paura mai vinta, inchiodata per sempre: il puzzo di brodaglia del carrello del vitto, quello pungente dei disinfettanti, il bip del segnalatore del fine-flebo, la porta che si chiude alle mie spalle quando termina l'ora della vita
Così si sente chi di noi vive l'esperienza di una perdita incolmabile: impigliato, inchiodato. Dalle pagine di questo libro affiora il volto vivissimo di una giovane donna, Giovanna De Angelis, madre di tre figli e di molti libri, editor di professione, che si ammala e muore. Il suo compagno la cerca, con la speranza irragionevole degli innamorati, attraverso le stanze - dell'ospedale, della casa, dei ricordi - fino a perdersi. Solo un ragazzo non si sottrae alla fratellanza profonda cui ogni dolore ci chiama e come un Caronte buono gli tende una mano verso la vita che continua a scorrere, che ci chiama in avanti, pronta a rinascere sul ciglio dell'assenza. Yari Selvetella dà voce a un addio che sembra continuamente sfuggire al tentativo di essere pronunciato, come Moby Dick nel fondo del mare, e scrive un kaddish laicissimo eppure pervaso del mistero che ci unisce a coloro che abbiamo amato. Attraverso il labirinto al neon degli ospedali, le stanze chiuse del lutto, il filo tracciato da una penna sul foglio bianco è ancora di salvezza, celebrazione commossa della forza vitale delle parole.

Un compagno, tre figli, un lavoro gratificante, vacanze al mare, libri, dischi, cene… vita. Poi un giorno, una bolla sulla tempia, un'altra… codice esenzione 048. E così se ni spegne una donna attiva, vitale, amata. E cosa resta a chi l'amava? Restano i ricordi, il rapporto con la paura, forse i rimorsi; resta tutto ciò che non si è detto, non si è fatto, si sarebbe potuto fare diversamente. E soprattutto resta un grande, gigantesco vuoto e l'impossibilità di rassegnarsi alla perdita. Allora il tempo, la persona, la vita si sdoppia: si riprende a lavorare, ad uscire, a conoscere, ma si cerca ancora, si torna ancora lì dove tutto è finito. Eppure arriva un momento in cui si sente il bisogno di amare, si rivendica il diritto di amare di nuovo. E si accetta quella mano tesa, una fra tante, che inconsapevolmente ritraghetta verso la vita.
Di rado mi è capitato di leggere la perdita raccontata con tanto trasporto: aprendo questo libro ho avuto quasi l'impressione di entrare in una dimensione diversa, fatta di sofferenza, ricordi felici, ricordi dolci e amari, dolori difficili da mandar giù. Una dimensione sofferta, sì, ma viva: le emozioni, i sentimenti provati dall'autore si avvertono tutti, forzano la cortina di distacco che ognuno di noi costruisce verso il dolore altrui, bruciano e segnano. E diventa quasi necessaria la catarsi finale che, inevitabilmente, di riflesso viviamo anche noi. Le stanze dell'addio non è un libro facile, non solo per i temi trattati – la malattia, la morte, la perdita – ma perché è tutto fuorché un libro finto, costruito, pensato per affascinare. Qui i sentimenti sono tanto autentici quanto forti e come tali esigono tempo, cura e rispetto anche da parte di chi crede di star solo leggendo un libro. Una lettura che consiglio proprio per la sua autenticità, oltre che per il fatto che – dal punto di vista meramente letterario - è scritta magnificamente, aspetto tutt'altro che trascurabile.
 
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