“Io come singolo individuo sono uno zero.”
É il secondo libro che leggo di questo autore, che non avrei mai approcciato se non mi fosse stato caldamente consigliato... (a chi sa: grazie!) Il primo era un racconto, questo è un romanzo, uno dei pochi scritti da Walser, il quale si è dedicato perlopiù alla cosiddetta “prosa minore”.
La trama è molto semplice. Jakob von Gunten, giovane rampollo di una famiglia benestante, si auto-propone come allievo di un istituto alquanto singolare: dalle poche informazioni a nostra disposizione dovrebbe trattarsi di una scuola per camerieri, ma di fatto non ci è dato di ricevere alcuna chiarificazione in merito. Quello che sappiamo, attraverso il diario dello stesso protagonista, è che in questa scuola non si insegna nulla, nè dal punto di vista dei contenuti, nè da quello morale o umano. I ragazzi sembrano abbandonati a loro stessi, il loro unico dovere consiste nel ripetere come degli automi le regole di una buona (e sterile) condotta. Questo azzeramento assoluto della personalità, questa consapevolezza che viene loro inculcata di non valere nulla, sembra tuttavia portare i suoi frutti: uno dopo l’altro i giovani lasciano l’istituto, dopo aver trovato un impiego più o meno dignitoso.
Fra i vari compagni di Jakob, alcuni apprezzati, altri quasi compatiti, spicca il serio e zelante Kraus, allievo-modello secondo i canoni della scuola (ovvero un “nulla” a completo servizio degli altri) al quale Jakob, la cui ammirazione rasenta la venerazione, riconosce una vocazione quasi divina.
Unico fra tutti gli allievi, Jakob von Gunten sembra riuscire a penetrare i segreti dell’istituto, personificato nelle figure della dolce e malinconica Lisa – unica “insegnante” di cui ci è dato sapere – e il signor Benjamenta, suo fratello, fondatore e direttore della scuola. Il guizzo di un'acuta intelligenza, che Jakob rivela oltre la facciata di un'assoluta e cieca sottomissione, conquista poco a poco la fiducia e la confidenza del compito direttore, fino a restituirgli una vera linfa vitale, tanto che, dopo la morte di Lisa – presumibilmente consumata dal suo “non-vivere” – e la chiusura dell'istituto, Jakob (dietro sua richiesta) lo accompagnerà nella sua nuova vita “fuori”.
La ragione per cui mi risulta difficoltà di parlare di questo libro è la stessa che gli conferisce un grandissimo fascino: Walser non palesa in modo chiaro la sua posizione rispetto al protagonista e all’ambiente ambiguo nel quale egli vive. Jakob parla dell'istituto e dei suoi “valori” in modo rispettoso, spesso persino entusiastico (sembra quasi che, superati i primi sporadici tentativi di rivolta, il suo “addomesticamento” sia pienamente riuscito). Eppure, come si può credere che Walser volesse davvero esprimere la sua ammirazione per un tipo di insegnamento basato tutto sulla disciplina esteriore, sulla mortificazione dell’individuo in quanto “risorsa”?
Oltretutto lo stile di Walser (che mi piace moltissimo) è particolarissimo, pervaso di un’ironia sottile e avvolgente... è logico chiedersi se per caso non ci stia prendendo in giro, se in realtà voglia denigrare quello che finge di apprezzare, o ridicolizzare quello che normalmente la società esalta. Il risultato è che si legge una pagina dopo l'altro in uno stato di sospensione, di perenne attesa, per poi accorgersi che... no, probabilmente non c'è nessuna morale sottintesa, ma solo un susseguirsi di pensieri, ora lucidi, ora onirici, gli uni e gli altri di una profondità a volte inquietante.
Scrive Calasso nella sua postfazione al romanzo, “come Jakob, anche Walser (...) rivolge il suo sguardo soprattutto agli avvenimenti minuscoli, alla vita sparpagliata, a tutto ciò che è trascurabile. (...) L’ironia ininterrotta di Walser – ultima discendenza dei grandi romantici – presuppone la certezza della superfluità della parola. Da ciò il predominio della chiacchiera.”
Insomma, se un senso c'è, questo sarà da cercare nelle divagazioni (a volte tragiche, mai scontate) del protagonista, in alcuni passaggi secondo me indimenticabili...
“Ma conformarsi è più elegante, assai più elegante che non il pensare. Chi pensa s’impenna, è questo è sempre brutto, è pregiudizievole alle cose. Sapessero solo quante cose corrompono, i pensatori! Uno che si applica a non pensare, fa qualche cosa: ebbene, proprio quella cosa è più necessaria.” É alla luce di questo tipo di considerazioni che deve essere letta la paradossale, estrema nobilitazione del “servilismo” compiuta dall’istituto e da Walser stesso.
Io amo pormi di fronte a qualcuno o qualcosa in grado di mettere in discussione le mie certezze, le categorie di pensiero da me date per assodate, persino le mie “basi” morali... Cerco e amo questo tipo di “crisi”, anche se durano solo il tempo di un bel libro. E per questo non posso che dirmi molto contenta di aver letto questo.
É il secondo libro che leggo di questo autore, che non avrei mai approcciato se non mi fosse stato caldamente consigliato... (a chi sa: grazie!) Il primo era un racconto, questo è un romanzo, uno dei pochi scritti da Walser, il quale si è dedicato perlopiù alla cosiddetta “prosa minore”.
La trama è molto semplice. Jakob von Gunten, giovane rampollo di una famiglia benestante, si auto-propone come allievo di un istituto alquanto singolare: dalle poche informazioni a nostra disposizione dovrebbe trattarsi di una scuola per camerieri, ma di fatto non ci è dato di ricevere alcuna chiarificazione in merito. Quello che sappiamo, attraverso il diario dello stesso protagonista, è che in questa scuola non si insegna nulla, nè dal punto di vista dei contenuti, nè da quello morale o umano. I ragazzi sembrano abbandonati a loro stessi, il loro unico dovere consiste nel ripetere come degli automi le regole di una buona (e sterile) condotta. Questo azzeramento assoluto della personalità, questa consapevolezza che viene loro inculcata di non valere nulla, sembra tuttavia portare i suoi frutti: uno dopo l’altro i giovani lasciano l’istituto, dopo aver trovato un impiego più o meno dignitoso.
Fra i vari compagni di Jakob, alcuni apprezzati, altri quasi compatiti, spicca il serio e zelante Kraus, allievo-modello secondo i canoni della scuola (ovvero un “nulla” a completo servizio degli altri) al quale Jakob, la cui ammirazione rasenta la venerazione, riconosce una vocazione quasi divina.
Unico fra tutti gli allievi, Jakob von Gunten sembra riuscire a penetrare i segreti dell’istituto, personificato nelle figure della dolce e malinconica Lisa – unica “insegnante” di cui ci è dato sapere – e il signor Benjamenta, suo fratello, fondatore e direttore della scuola. Il guizzo di un'acuta intelligenza, che Jakob rivela oltre la facciata di un'assoluta e cieca sottomissione, conquista poco a poco la fiducia e la confidenza del compito direttore, fino a restituirgli una vera linfa vitale, tanto che, dopo la morte di Lisa – presumibilmente consumata dal suo “non-vivere” – e la chiusura dell'istituto, Jakob (dietro sua richiesta) lo accompagnerà nella sua nuova vita “fuori”.
La ragione per cui mi risulta difficoltà di parlare di questo libro è la stessa che gli conferisce un grandissimo fascino: Walser non palesa in modo chiaro la sua posizione rispetto al protagonista e all’ambiente ambiguo nel quale egli vive. Jakob parla dell'istituto e dei suoi “valori” in modo rispettoso, spesso persino entusiastico (sembra quasi che, superati i primi sporadici tentativi di rivolta, il suo “addomesticamento” sia pienamente riuscito). Eppure, come si può credere che Walser volesse davvero esprimere la sua ammirazione per un tipo di insegnamento basato tutto sulla disciplina esteriore, sulla mortificazione dell’individuo in quanto “risorsa”?
Oltretutto lo stile di Walser (che mi piace moltissimo) è particolarissimo, pervaso di un’ironia sottile e avvolgente... è logico chiedersi se per caso non ci stia prendendo in giro, se in realtà voglia denigrare quello che finge di apprezzare, o ridicolizzare quello che normalmente la società esalta. Il risultato è che si legge una pagina dopo l'altro in uno stato di sospensione, di perenne attesa, per poi accorgersi che... no, probabilmente non c'è nessuna morale sottintesa, ma solo un susseguirsi di pensieri, ora lucidi, ora onirici, gli uni e gli altri di una profondità a volte inquietante.
Scrive Calasso nella sua postfazione al romanzo, “come Jakob, anche Walser (...) rivolge il suo sguardo soprattutto agli avvenimenti minuscoli, alla vita sparpagliata, a tutto ciò che è trascurabile. (...) L’ironia ininterrotta di Walser – ultima discendenza dei grandi romantici – presuppone la certezza della superfluità della parola. Da ciò il predominio della chiacchiera.”
Insomma, se un senso c'è, questo sarà da cercare nelle divagazioni (a volte tragiche, mai scontate) del protagonista, in alcuni passaggi secondo me indimenticabili...
“Ma conformarsi è più elegante, assai più elegante che non il pensare. Chi pensa s’impenna, è questo è sempre brutto, è pregiudizievole alle cose. Sapessero solo quante cose corrompono, i pensatori! Uno che si applica a non pensare, fa qualche cosa: ebbene, proprio quella cosa è più necessaria.” É alla luce di questo tipo di considerazioni che deve essere letta la paradossale, estrema nobilitazione del “servilismo” compiuta dall’istituto e da Walser stesso.
Io amo pormi di fronte a qualcuno o qualcosa in grado di mettere in discussione le mie certezze, le categorie di pensiero da me date per assodate, persino le mie “basi” morali... Cerco e amo questo tipo di “crisi”, anche se durano solo il tempo di un bel libro. E per questo non posso che dirmi molto contenta di aver letto questo.
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