Gli amori infelici non finiscono mai
Come sempre, Màrai costruisce un palcoscenico dove pochi attori stanno fermi al centro della scena, lasciando spazio al dialogo. Il dialogo è ciò che costituisce le vicende, ed è un dialogo sempre rivolto al passato, intriso di malinconia: nei libri di Màrai sembra sempre di trovarsi dinnanzi a qualche prezioso oggetto antico, coperto di sporcizia, polvere e segni del tempo che sembrano mutarne i contorni e renderlo irriconoscibile. Il lettore è inizialmente spaesato, ma poi, lentamente, la forza della parola disvela la verità, toglie strati di polvere, mette in luce nuove angolazioni: ed è qui che emergono le incomprensioni, quando il dubbio la fa da padrone. Perché c'è sempre un momento in cui il lettore è in dubbio, non sa più a cosa credere, ha delle intuizioni che possono rivelarsi del tutto sbagliate, fino a quando, di nuovo, la parola è un grado di portare alla luce un nuovo grado di comprensione. E allora pare davvero di trovarsi nella radura che lascia filtrare la luce, e ogni cosa appare chiara, disvelata.
In questo romanzo, che pure non è secondo me il più riuscito di Màrai, il passato conserva una forza creatrice non indifferente, una forza capace di modificare in maniera radicale gli eventi del futuro, anche a distanza di tanti anni: c'è una malinconia, un senso di inesorabile fatalità che permea ogni riga, mettendo in guardia il lettore, eppure non si può fare a meno di sperare, fino all'ultimo, che Eszter abbia la forza di esprimere un diniego.
Un romanzo che si legge in un soffio, un paio d'ore in cui pare di contemplare un quadro.