pigreco
Mathematician Member
Romanzo scritto in punta di penna, delicato eppure fortemente erotico, lento eppure avvincente. La trama è molto semplice e lascerò alla penna di Baricco il compito di presentare in modo esauriente questo romanzo nella recensione che incollerò qui sotto dopo il mio breve commento. Leggendo questo libro ci si rende conto quanto sia diversa la sensibilità giapponese rispetto al nostro sentire occidentale; difficilmente oggi un editore permetterebbe la pubblicazione di questo breve volume senza l'aggiunta di qualche scena "forte" o senza una trama più "definita". Un libro scritto per il piacere di scrivere, un libro sul ricordo, sulla vita e sulla morte. Breve ma intenso.
Da "Una certa idea di mondo", di Alessandro Baricco, La Repubblica del 6 maggio 2012:
(...) se avete dei dubbi sentite questo: García Márquez, l' uomo con più storie in testa del pianeta terra, non ha resistito alla tentazione di farne un remake (è come se Madonna ti rubasse la gonna tanto le piace). D' accordo, era forse un po' vecchio e stanco (adoro gli scrittori quando sono vecchi e stanchi) ma sta di fatto che invece di attingere dal suo repertorio infinito si è chinato su questo libricino e l' ha riscritto alla sua maniera, in salsa caraibica. Poi il libro lo ha intitolato Memoria delle mie puttane tristi, e basta accostare i due titoli, il suo e quello Kawabata, per capire che l' Oceano Pacifico non accade inutilmente, tra la Colombia e il Giappone. Storia bellissima, tanto da risultare, per alcuni, il più bel racconto erotico della letteratura universale (be' , immagino dopo Lolita, ovviamente). Non saprei dire, non sono così ferrato al riguardo, ma è certo che quando Kawabata si mise ad appoggiare sulla scacchiera le pedine del racconto, con la sua estenuante meticolosità, aveva in mente una partita memorabile: dovette trovarla sul fondo di qualche notte insonne, o venuta alla superficie dopo tutta una vita arsa dal desiderio. Ecco cosa appoggiò sulla scacchiera: uno strano bordello, dei vecchi clienti ormai impotenti, delle ragazze bellissime. E fin lì poteva ancora andare. Poi aggiunse la sua variante: le ragazze dormono, preda di potenti sonniferi,ei vecchi si infilano nei loro letti per trascorrere una notte accanto a quei corpi magnifici; prima o poi cadono addormentati e al mattino scivolano via dal letto che le ragazze sono ancora immerse nel sonno: non passa una parola, tra loro, e i vecchi non sanno né mai sapranno nulla di loro. Kawabata aggiunse un particolare che dovette sembragli fondamentale: le ragazze sono tutte vergini. Quindi fece la cosa che restava da fare: prese un uomo, gli diede un nome, Eguchi, e lo fece andare nel bordello, quasi per caso, una prima volta; e poi altre quattro volte, incapace di resistere alla tentazione. Gli parve più esatto scegliere un uomo vecchio ma non completamente impotente. Allora tutto gli dovette sembrare perfetto: e si mise a giocare la partita. (Consiglio: se vi sembra una storia di erotismo squisitamente maschile, non sottovalutate Kawabata e provate a immedesimarvi in una delle ragazze.) Cosa succede di preciso in quei letti?, è ovviamente la domanda con cui il lettore si accinge ad assistere alla partita. Tutte cose molto giapponesi, viene da dire (gesti millimetrici, desideri estenuati, senso di morte, culto e disprezzo dei corpi). Ma devo anche aggiungere che il tutto è così tipicamente giapponese da fare venire un dubbio paradossale: era Kawabata che raccontava bene l' erotismo giapponese, o siamo noi occidentali che ci siamo fatti una certa idea dell' erotismo giapponese leggendo Kawabata? Mah. Nel dubbio, preferisco ricordare una delle prime cose che fa Eguchi, in quel letto, il fiato mozzato dalla bellezza della ragazza, e nel petto un secondo cuore che inizia a battere furiosamente. È un gesto invisibile, prolungato, molto sensuale, e tipicamente proustiano: ricorda. Osservare la ragazza, sfiorarla, toccarla, lo porta irresistibilmente a ricordare le donne che ha amato, una dopo l' altra, ma nei minimi particolari, come se i ricordi si sciogliessero al calore di quel corpo, e il tepore di quella bellezza li richiamasse dal gelo dell' oblio. Vi sembrerà un rito da vecchi, ma non fermatevi alle apparenze. Lì si sta parlando del misterioso istinto per cui nella persona amata convochiamo sempre l' intero mondo di ciò che sapremmo amare, o abbiamo saputo amare. Lì si parla degli innumerevoli fantasmi che abitano i vostri letti d' amore, rendendoli spinosi e magnifici, sempre. Mi resta da annotare una necessaria avvertenza: il libro è scritto da Kawabata, e quindi è un' esperienza di lettura molto singolare. Di rado succede, in letteratura, di sentire una così profonda e incolmabile lontananza: si ha la chiara percezione di una civiltà diversa, fedele a un gusto e a un' idea di bellezza di cui non conosciamo i parametri, e neppure le più elementari regole. Un canone che non ci appartiene. Non è solo la lentezza, o il gusto per i dettagli: è proprio un' idea di ritmo, di eleganza, di distanza, che per un occidentale è fuori portata. Ci vuole pazienza, e molta fede. Nel caso specifico di questo libro vi irriterà, ad esempio, il debolissimo finale. Ma anche lì, è una questione di civiltà, e non tanto di imprecisione tecnica. Quasi tutti i finali dei libri di Kawabata sono irritanti: alle volte neanche li scriveva, i finali, tanto poco gli importava di loro. Immagino che per lui l' idea che una storia dovesse avere un finale suonasse sciocca almeno quanto l' aspettarsi, ammirando un albero nello splendore della fioritura, che a un certo punto succeda qualcosa. E rimanere delusi se non succede nulla tranne quello splendore. Capite che per gente a cui la grammatica del narrare è porta da Hollywood, la cosa offre qualche imbarazzo.
Da "Una certa idea di mondo", di Alessandro Baricco, La Repubblica del 6 maggio 2012:
(...) se avete dei dubbi sentite questo: García Márquez, l' uomo con più storie in testa del pianeta terra, non ha resistito alla tentazione di farne un remake (è come se Madonna ti rubasse la gonna tanto le piace). D' accordo, era forse un po' vecchio e stanco (adoro gli scrittori quando sono vecchi e stanchi) ma sta di fatto che invece di attingere dal suo repertorio infinito si è chinato su questo libricino e l' ha riscritto alla sua maniera, in salsa caraibica. Poi il libro lo ha intitolato Memoria delle mie puttane tristi, e basta accostare i due titoli, il suo e quello Kawabata, per capire che l' Oceano Pacifico non accade inutilmente, tra la Colombia e il Giappone. Storia bellissima, tanto da risultare, per alcuni, il più bel racconto erotico della letteratura universale (be' , immagino dopo Lolita, ovviamente). Non saprei dire, non sono così ferrato al riguardo, ma è certo che quando Kawabata si mise ad appoggiare sulla scacchiera le pedine del racconto, con la sua estenuante meticolosità, aveva in mente una partita memorabile: dovette trovarla sul fondo di qualche notte insonne, o venuta alla superficie dopo tutta una vita arsa dal desiderio. Ecco cosa appoggiò sulla scacchiera: uno strano bordello, dei vecchi clienti ormai impotenti, delle ragazze bellissime. E fin lì poteva ancora andare. Poi aggiunse la sua variante: le ragazze dormono, preda di potenti sonniferi,ei vecchi si infilano nei loro letti per trascorrere una notte accanto a quei corpi magnifici; prima o poi cadono addormentati e al mattino scivolano via dal letto che le ragazze sono ancora immerse nel sonno: non passa una parola, tra loro, e i vecchi non sanno né mai sapranno nulla di loro. Kawabata aggiunse un particolare che dovette sembragli fondamentale: le ragazze sono tutte vergini. Quindi fece la cosa che restava da fare: prese un uomo, gli diede un nome, Eguchi, e lo fece andare nel bordello, quasi per caso, una prima volta; e poi altre quattro volte, incapace di resistere alla tentazione. Gli parve più esatto scegliere un uomo vecchio ma non completamente impotente. Allora tutto gli dovette sembrare perfetto: e si mise a giocare la partita. (Consiglio: se vi sembra una storia di erotismo squisitamente maschile, non sottovalutate Kawabata e provate a immedesimarvi in una delle ragazze.) Cosa succede di preciso in quei letti?, è ovviamente la domanda con cui il lettore si accinge ad assistere alla partita. Tutte cose molto giapponesi, viene da dire (gesti millimetrici, desideri estenuati, senso di morte, culto e disprezzo dei corpi). Ma devo anche aggiungere che il tutto è così tipicamente giapponese da fare venire un dubbio paradossale: era Kawabata che raccontava bene l' erotismo giapponese, o siamo noi occidentali che ci siamo fatti una certa idea dell' erotismo giapponese leggendo Kawabata? Mah. Nel dubbio, preferisco ricordare una delle prime cose che fa Eguchi, in quel letto, il fiato mozzato dalla bellezza della ragazza, e nel petto un secondo cuore che inizia a battere furiosamente. È un gesto invisibile, prolungato, molto sensuale, e tipicamente proustiano: ricorda. Osservare la ragazza, sfiorarla, toccarla, lo porta irresistibilmente a ricordare le donne che ha amato, una dopo l' altra, ma nei minimi particolari, come se i ricordi si sciogliessero al calore di quel corpo, e il tepore di quella bellezza li richiamasse dal gelo dell' oblio. Vi sembrerà un rito da vecchi, ma non fermatevi alle apparenze. Lì si sta parlando del misterioso istinto per cui nella persona amata convochiamo sempre l' intero mondo di ciò che sapremmo amare, o abbiamo saputo amare. Lì si parla degli innumerevoli fantasmi che abitano i vostri letti d' amore, rendendoli spinosi e magnifici, sempre. Mi resta da annotare una necessaria avvertenza: il libro è scritto da Kawabata, e quindi è un' esperienza di lettura molto singolare. Di rado succede, in letteratura, di sentire una così profonda e incolmabile lontananza: si ha la chiara percezione di una civiltà diversa, fedele a un gusto e a un' idea di bellezza di cui non conosciamo i parametri, e neppure le più elementari regole. Un canone che non ci appartiene. Non è solo la lentezza, o il gusto per i dettagli: è proprio un' idea di ritmo, di eleganza, di distanza, che per un occidentale è fuori portata. Ci vuole pazienza, e molta fede. Nel caso specifico di questo libro vi irriterà, ad esempio, il debolissimo finale. Ma anche lì, è una questione di civiltà, e non tanto di imprecisione tecnica. Quasi tutti i finali dei libri di Kawabata sono irritanti: alle volte neanche li scriveva, i finali, tanto poco gli importava di loro. Immagino che per lui l' idea che una storia dovesse avere un finale suonasse sciocca almeno quanto l' aspettarsi, ammirando un albero nello splendore della fioritura, che a un certo punto succeda qualcosa. E rimanere delusi se non succede nulla tranne quello splendore. Capite che per gente a cui la grammatica del narrare è porta da Hollywood, la cosa offre qualche imbarazzo.