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Le parole del Tamburo di latta sono gli aghi dell’agopuntura che scivolano nel corpo e cercano il male per distruggerlo. Entrano nei personaggi, negli abusi di potere, nelle vicende che governano il mondo e tutti i corpi vengono da essi infilzati, analizzati, interrogati. E il grottesco la fa da padrone e risponde agli interrogativi, alle debolezze, ai sospetti, alle diabolicità, ai soprusi, alle disuguaglianze. Il grottesco infilza la stanchezza fisica, morale, intellettuale, spirituale dell’umanità.” (dalla recensione di Enzo Schiavi)
Mentre cercavo un esordio per questo commento, fra i sinonimi di “grottesco” ho trovato – oltre a bizzarro, stravagante, caricaturale – anche
brutto, deforme, mostruoso.
Deforme. Ecco qui: non è solo Oskar ad essere deforme (brutto no, mostruoso a volte sì e non fa nulla per nasconderlo), è l’intero romanzo ad esserlo. Un
romanzo deforme che – sulla scia della tradizione picaresca e in un ambiguo rapporto di imitazione/stravolgimento del romanzo di formazione tedesco* – piega, altera la forma tradizionale e, attraverso quest’aberrazione, si offre di interpretare la realtà sotto una luce diversa. É quello che fa Oskar quando, ormai è inutile ripeterlo,
sceglie di diventare un outsider arrestando volutamente la propria crescita in segno di rifiuto, di difesa e allo stesso tempo di forza nei confronti della società che lo circonda; tant’è vero che egli fin dall’inizio si autodefinisce un “eroe”, riconosce la propria superiorità intellettuale e, seguendo gli insegnamenti del suo “maestro” Bibra, si pone non come spettatore, bensì come
protagonista della tribuna della vita. Un paradosso, se pensiamo al contesto politico-ideologico nel quale è ambientata la vicenda, l’ascesa del nazismo: calcare il palco non nelle vesti di un superuomo, ma di una creatura reietta dalla società, che proprio in virtù della sua marginalità ha il privilegio di smascherare le ipocrisie dei benpensanti, di contemplare la bassezza della natura umana e decidere di non farne parte.
É per questo che ho un debole per i romanzi che io, esagerando, amo definire “folli”. Quelli in cui l’assurdità, l’eccesso non sono fini a se stessi, ma diventano l’unico strumento possibile per essere ancora più realisti, ancora più “chirurgici”... perchè in questi casi solo trascendendo la “normale” soglia della verosimiglianza riusciamo a catturare e a restituire gli aspetti più torbidi della realtà (penso, per citarne alcuni, a
Il teatro di Sabbath di Roth,
Mentre morivo di Faulkner,
Perturbamento di Bernhard,
Viaggio al termine della notte di Cèline,
Il maestro e Margherita di Bulgakov...)
Credo che sia inutile insistere sulla complessità stilistica e simbolica di quest’opera (il nanismo prima e la deformità poi, il tamburo, la voce vetricida, il rapporto coi propri padri, il senso di colpa, ecc.). Basti sapere che ogni fase della vita Oskar, ogni sua scelta, ogni suo atteggiamento, giusto o sbagliato, condivisibile o no, si porta dietro un significato profondo, senza tuttavia tradire mai la vocazione letteraria del romanzo. Questo per dire che, per quanto denso di contenuti,
Il tamburo di latta costituisce uno di quei rari casi in cui forma, anzi,
de-formità e sostanza si integrano perfettamente, al punto di dare l’impressione che non vi è nulla di “troppo” e nulla di “non abbastanza” : che tutto, insomma, non poteva essere che così.
Un’ultima parola la spendo, anche in riferimento a quanto scritto da Jessamine, sul valore delle scelte di volta in volta compiute da Oskar. É vero che a ognuna di esse è offerta in qualche modo una “giustificazione” (caso emblematico: Oskar decide di smettere di crescere, e per questo cade nella botola lasciata inavvertitamente aperta dal padre/non padre Matzerath, cogliendo così anche l’occasione per dare ad altri, oltre che a se stesso, una valida ragione per odiarlo), ma è anche vero che tale giustificazione è piuttosto un pretesto offerto a questi “altri”, che ne hanno bisogno molto più di lui.
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Sin dall’inizio mi era chiaro: gli adulti non ti comprenderanno , se non ti vedranno crescere più in modo visibile (e, già qui, una bella “frecciata” alla gente comune, incapace di cogliere una “grandezza” che non sia meramente fisica)
ti considereranno un tardone, trascineranno te e il loro denaro da cento medici e, se non la tua guarigione, vorranno almeno una spiegazione della tua malattia. Per ridurre al minimo sopportabile la noia dei consulti dovevo dunque fornire, ancor prima che il medico si pronunciasse, una ragione plausibile dell’arresto della mia crescita.”
In questa presa di coscienza della necessità dell’uomo di trovare a tutti i costi una spiegazione, si nasconde secondo me un grandissimo messaggio che ci fa tornare alle considerazioni iniziali sul grottesco e sulla deformità. Non è Oskar che ha bisogno dei propri stratagemmi, è il resto del mondo che li pretende: incapace com’è, come siamo, di accettare la realtà così come si presenta – con le sue brutture e mostruosità, coi suoi eccessi e i suoi assurdi – ma
incapaci anche di accettare le forme bizzarre di una protesta, di un uscire fuori dal coro che sveli e denunci queste stesse assurdità, meglio ingannarci e farci credere che una spiegazione, per quanto fasulla, sia sempre possibile e lasciare il privilegio di contemplare la verità ai pochi “grandi” che lo meritano davvero.
Un capolavoro che vale la propria fama e l’impegno (non la fatica) che ci vuole per portarlo a termine.
5/5
* Consiglio vivamente a tutti gli interessati la lettura di questo breve saggio di Alessandro Costazza:
Oskar Matzerath e le stratificazioni di senso di un personaggiowww.ledonline.it/acme/allegati/Acme-09-II-05-Costazza.pdf
Semplice, chiaro e molto interessante; spiega bene quello che io neanche ho voluto sfiorare su alcune delle simbologie interne al romanzo e sul rapporto che ha quest’ultimo con il romanzo picaresco e quello di formazione. Merita.