il dramma del limite
copio e incollo il mio commento finale al XXXVII GdL
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“Io non riesco a capire fino in fondo i romanzi come Solaris”. Ho trovato questa citazione di Lem nell’introduzione dell'edizione Oscar Mondadori, una delle due in mio possesso; l'altra è la vecchissima e storica edizione cult della Nord e che ho usato per la lettura in occasione di questo GdL. Il fatto che Lem stesso abbia fatto un’affermazione del genere su un’opera scritta da lui stesso la dice lunga sulla complessità di questo romanzo che in verità offre molteplici piani di lettura, tra loro tutti connessi e tutti che ampiamente articolano profonde riflessioni sull’umano.
Bello lo stile scrittorio, mirabile il realismo ritmico dei dialoghi. La scelta stessa del protagonista-antagonista, un oceano, quindi l’acqua, il principio di vita primordiale per eccellenza, dà immediatamente conto del livello di radicalità dell’essere su cui questo romanzo va a posizionarsi: quel nocciolo ultimo, ineludibile e non perimetrabile sia dell'"altro" - qualunque sia questo "altro" da "conoscere" - che dell’io.
Lucidissima la visione scientifica, tecnica e tecnologica. Spettacolari e belle le descrizioni dei paesaggi, dei colori, nonché delle misteriosissime attività dell’oceano di Solaris (mimoidi, longhi, simmetriadi…) descrizioni che, in più di un punto, raggiungono vette di poetico lirismo. Lem ha letteralmente immaginato e costruito per noi un intero mondo. Molto efficaci e realistiche le pagine di solaristica, in cui SL inventa di sana pianta, con una felicità di penna sorprendente, un dibattito scientifico e la storia di una ricerca pluriennale, immensa e vana.
Il cuore del romanzo a mio parere sta in ciò che la critica ha individuato come “dramma gnoseologico”. I limiti strutturali da un lato e mutevolmente mobili dall’altro della capacità di conoscenza dell’uomo. Questo il tema carissimo a Lem, centrale, ossessivo in quasi tutta la sua attività scientifica ed artistico-letteraria. Di fronte a qualcosa di estremamente complesso, che ci trascende magari, procediamo al buio, a tentoni, come riusciamo e come possiamo, sovente andando a cozzare contro invalicabili muri. Ma al contempo non possiamo tirarci indietro. Provare e tentare è altrettanto connaturato all’uomo. Almeno quanto lo sono i limiti stessi. Il senso, e perché no, la gioia della ricerca risiede nel ricercare stesso, si potrebbe dire. E questo è sicuramente vero, ma nulla toglie, in Solaris, al dolore, all’angoscia della consapevolezza del limite.
Su tale tema centrale s’innesta un secondo piano di lettura, il vero colpo di genio di Lem: la rifocalizzazione su sé stessi come al contempo protagonisti del conoscere da un lato e principali ostacoli al conoscere stesso dall’altro.
Il pianeta Solaris, l’oggetto dell’indagine entra in contatto con l’indagatore in modo sorprendente ed inaspettato. Forse per colpire duro, forse, nella potentissima semplicità di un Dio imperfetto e bambino, come ventilato in chiusura di romanzo, per farci un ingenuo e dolorissimo dono. Il riportare in vita, ridare carne a ciò che c’è di più nascosto e profondo: i nostri fantasmi, ciò che più vogliamo ed al contempo temiamo, ciò che abbiamo perduto.
Guardiamo qualcosa, tentiamo di conoscerla e in qualche modo d’impossessarcene e farla nostra, e nel solo atto di guardare, noi stessi cambiamo, almeno un po’ in un micidiale vortice in cui le cause si confondono con gli effetti, l’osservato con l’osservatore, nulla è stabile, tutto precipita, tutto muta continuamente ed incomprensibilmente .
Che tale vertigine avvenga a livelli personalissimi, di ogni singolo e concreto individuo, su piani unici, specifici, intimi (e forse inconfessabili) ne dà ragione la delicatissima scelta letteraria di farci conoscere solo Harey, il fantasma di Kelvin, il protagonista narrante. Kelvin non sa, e noi con lui, chi o cosa siano gli “ospiti” dei suoi compagni, se non per fugaci apparizioni. Quasi fosse qualcosa di troppo intimo per profanarlo con sguardi estranei.
C’è poi la storia d’amore, delicata, bella e dolorissima: l’ospite di Kelvin è Harey, la amatissima moglie perduta, morta suicida. Ma anche qui, nulla è semplice, nulla è ovvio. Il ripugnante clone, estraneo, quel "non-lei" prende spessore. Da semplice tramite di un qualcosa di ignoto muta in soggetto, nuovo, unico: si fa amare per quello che è e non per quello che, chissà cosa, dovrebbe rappresentare. Ma non muta solo agli occhi di Kelvin, muta anche nella evoluzione dell’autocoscienza di sé. Prende consapevolezza d’essere un’altra Harey. E quest’altra Harey vuole, lei, non come rimando ad altro, ma proprio lei, essere amata. Ancora la vertigine, il cambiamento di ruolo, la mescolanza tra osservante ed osservato, entrambi in reciproca evoluzione senza soluzione di continuità.
Dolce il passo in cui cheide a Kelvin: “le somiglio molto?”, o l’altro ancora in cui gli dice: “così sai che sono io e non lei”. Una donna innamorata. Come di questa, proprio di questa Harey, è innamorato Kelvin. Abbastanza da intuire che l’unica cosa sensata da fare è tenere in vita quell’unica remota scintilla di possibilità: restare. Ed aspettarla, forse inutilmente, per sempre.
Una profonda riflessione sui limiti del conoscere. Invalicabili. Ma di cui non possiamo fare a meno… che farne a meno è strappar via un pezzo di sé e perderlo per sempre.
Un romanzo bellissimo. 4,3/5