Littizzetto, Luciana - Io mi fido di te. Storia dei miei figli nati dal cuore

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"Te che non sei nato dalla mia pancia ma dal mio cuore. Te che hai una faccia diversa dalla mia, anche se tutti dicono che mi somigli. Te che la vita è bastarda, perché ti ha fatto nascere in un posto e rinascere in un altro. E non hai potuto scegliere. Nessuna delle due volte." C'è una storia nella vita della comica più amata d'Italia. Una storia complicata, ma anche piena di momenti divertenti, che nasce con l'affido di due ragazzi da un istituto e continua negli anni con tutto quello che comporta crescere dei figli: i dubbi, gli spaventi, i ricevimenti professori, i fidanzati, i tatuaggi, la stanchezza, il senso di colpa, di inadeguatezza, costante: "Dio come le ho odiate queste mamme perfette, genitrici naturali di figli perfetti. Pitonesse dagli occhi a mirtillo sempre pronte a farti sentire inadeguata e inutile come il mignolo per le arpiste. A spampanarti il cuore, a te che ti danni l'anima nel tentativo di trasformare quel mucchio di detriti in un bambino tranquillo e felice. Provaci tu, madre gaudiosa, a inventarti madre a quarant'anni di due bambini di nove e undici anni senza un minimo di tirocinio...".

Luciana Littizzetto racconta questa storia privata in un memoir potente e originale, senza risparmiarsi niente, nemmeno i momenti più duri, "quando il cuore si scartavetra, si corrode a forza di ruminare lacrime, e ti convinci che non hai capito una mazza, un tubo di niente e di niente". Si racconta con sincerità e grazia, spingendo la scrittura umoristica verso una nuova frontiera, mettendola al servizio dei sentimenti più profondi e contraddittori: "l'amore è un puttanaio infinito, un guazzabuglio che ti fa battere il cuore e saltare i nervi, a volte nello stesso momento. In sincrono. E qui si tratta d'amore".

Si legge d'un fiato, mi è piaciuto, è molto "vero". L'argomento è serio e drammatico, lei riesce a trattarlo con brio e leggerezza. Anche se si sorride, si percepisce tutta la fatica e la difficoltà dell'affido di bambini già grandicelli.

Consigliato!

«Per me potevo anche stare senza figli. Non ho mai avuto quel desiderio incontenibile di ventre gonfio, di vita in crescita dentro le viscere e di allattamenti da Madonna col bambino. La coppia funzionava, non facevamo nulla per impedire una gravidanza o per favorirla. […] Non avvertivo una reale mancanza. Piuttosto un sentimento vago, un’ipotesi di futuro soffocata da un presente chiassoso.»

Poi ecco montare l’idea che fosse possibile: «chiacchierando con Maria, la mitica Defilippica, nella sua casa luminosa piena di cani e di Costanzi, mi confidò che aveva iniziato un’esperienza di affido». E così, dopo «lunghi colloqui con assistenti sociali e psicologhe», arriva il primo incontro: due bambini, un maschio e una femmina, Jordan e Davide, nove anni lui e undici lei, entrano finalmente a far parte della vita di Luciana e del suo compagno Davide, batterista di Vinicio Capossela.

La vera differenza tra adozione e affido è che «Nel primo caso, dopo le lunghe fatiche e gli anni di attesa, quando il bambino atterra nelle tue braccia è TUO. I legami passati, perlomeno quelli burocratici, sono recisi per sempre. C’è un’appartenenza totale sancita dalla legge. Nell’affido no. Nell’affido la mamma o il padre naturali ti dicono: «Tieni, spalanca le braccia, prendi questo bambino, nutrilo, amalo, crescilo, perché noi ora non possiamo occuparcene, già stiamo facendo una fatica boia a vivere, figurati pensare anche a lui». E domani? «Domani chi lo sa. Speriamo tanto che tutto si sistemi, ma non possiamo garantire. Comunque, se alla fine della strada toccherà scegliere, è chiaro che noi, essendo i genitori biologici, saremo privilegiati. Ovvio.» Ovvio sulla carta. Ma l’ovvio, si sa, dentro al cuore ci sta stretto. […] Nell’affido, e questa è un’altra differenza rispetto all’adozione, i bambini sono più grandicelli. Dei topoloni che si son fatti lunghi anni di comunità, parcheggiati lì nell’attesa di una risoluzione del loro contratto di vita, delle anime affaticate e tormentate. Se i servizi sociali ti chiedono di occuparti di un neonato, tendenzialmente è per un periodo non più lungo di un anno. Poi il piccolo va in adozione. Invece per la schiera di bimbi più grandi le dinamiche sono meno definite. Alcuni tornano nella famiglia naturale, altri rimangono fino alla maggiore età nella famiglia affidataria. In certi casi i genitori biologici perdono la patria potestà, in altri mantengono un legame con la famiglia affidataria per tutto il percorso di crescita.»

Luciana scopre così la difficile realtà della maternità: «Ciascuna è madre a modo suo. Uniformarsi e tentare di eguagliare dei modelli diversi temo non sia una scelta salutare. Il tuo essere madre dipende da mille variabili. Dal carattere, dall’attitudine, dal mestiere che fai, dalla tua storia di figlia e di sorella, dalla tua esperienza di moglie o di compagna. Non sta agli altri giudicare. L’unica cosa che conta è il coraggio di guardarsi allo specchio e chiedersi: sto facendo tutto quello che posso? Se la risposta è sì, non c’è proprio niente da aggiungere.»
 
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